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Accordo sindacale di demansionamento: il potere di licenziamento è limitato (Andrea Di Nino, Sintesi – Ordine dei Consulenti del Lavoro, aprile 2021)

23 Aprile 2021

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 701 del 18 gennaio 2021, si è espressa in merito al potere di licenziamento esercitabile da parte del datore di lavoro, evidenziando come lo stesso risulti limitato qualora il lavoratore abbia, in precedenza, aderito ad un accordo sindacale nel quale richiede di essere adibito ad una mansione inferiore allo scopo di salvaguardare il posto di lavoro.

I fatti di causa hanno visto un lavoratore licenziato a seguito dell’esito di una procedura di mobilità, ai sensi della Legge n. 223/1991. In particolare, il lavoratore – inquadrato nella categoria di impiegato – era stato collocato in CIGS per soppressione della funzione cui era addetto, manifestando in seguito la propria disponibilità a svolgere mansioni di livello inferiore, anche con diminuzione della retribuzione percepita.

Tale disponibilità veniva respinta da parte del datore di lavoro, avviando la mobilità per 15 dipendenti e, in seguito, stipulando l’accordo sindacale utile a definirne i criteri. Da ultimo, il lavoratore veniva licenziato con efficacia differita al termine del periodo di cassa integrazione.

A seguito dell’impugnazione del licenziamento da parte del dipendente, la stessa veniva respinta nei primi due gradi di giudizio, in cui si riteneva come dalla disponibilità dello stesso allo svolgimento di mansioni inferiori non scaturisse alcun obbligo per il datore di lavoro circa l’accoglimento dell’istanza, bensì solo la possibilità di giungere ad un accordo.

La Suprema Corte, ricevuto il ricorso del lavoratore, ha osservato come una clausola dell’accordo sindacale sottoscritto presso il datore di lavoro abbia previsto – in applicazione del comma 11 dell’art. 4 della Legge n. 223/1991 – che “gli accordi stipulati nel corso delle procedure di cui al presente articolo, che prevedano il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori ritenuti eccedenti, possono stabilire […] la loro assegnazione a mansioni diverse da quelle svolte”.

La clausola dell’accordo prevedeva dunque la possibilità per i dipendenti in esubero di chiedere di essere adibiti a mansioni e qualifiche inferiori, onde evitare il licenziamento. A dire della Corte di Cassazione, la ratio della norma di cui l’accordo sindacale è espressione impone un vincolo obbligatorio al datore di lavoro, trattandosi per un verso di un rimedio per evitare il licenziamento e, per l’altro, di una deroga non vincolante per i lavoratori, i quali potrebbero rifiutare la dequalificazione.

A prevalere è, infatti, “l’interesse del lavoratore a mantenere il posto di lavoro”: in tal senso, la Suprema Corte osserva inoltre come gli accordi sindacali che stabiliscono i criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità “non appartengono alla categoria dei contratti collettivi normativi, con la conseguenza che gli stessi incidono direttamente non già sulla posizione del lavoratore, ma su quella del datore di lavoro, il quale nella scelta dei dipendenti da porre in mobilità deve applicare i criteri concordati”.

L’accordo assume dunque natura vincolante, essendo preordinato alla tutela dell’interesse generale e della salvaguardia dei livelli occupazionali.

I giudici di legittimità, pertanto, accolgono il ricorso del lavoratore, giungendo alla conclusione che l’interesse primario tutelato dall’art. 4 comma 11 della Legge n. 223/1991 sia quella della conservazione del posto di lavoro e non quella della stabilità delle condizioni economiche contrattuali.

Fonte: Sintesi

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