Osservatorio

Risarcimento del danno per licenziamento illegittimo: il trattamento pensionistico conseguito dal lavoratore non è decurtabile (Andrea Di Nino, Sintesi – Ordine dei Consulenti del Lavoro, gennaio 2023)

31 Gennaio 2023

Con la sentenza n. 32130 del 31 ottobre 2022, la Corte Suprema di Cassazione si è espressa in merito alla quantificazione del risarcimento del danno spettante al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo che, a seguito del recesso, ha avuto accesso alla pensione di anzianità.

In particolare, i fatti di causa hanno visto un lavoratore, dipendente con funzioni di dirigente presso il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, richiedere la declaratoria di illegittimità di un decreto di detto Ministero con il quale era stato risolto il suo rapporto di lavoro a far tempo dal 4 settembre 2009, sul presupposto dell’intervenuta maturazione del requisito contributivo massimo di quaranta anni a sensi dell’articolo 72, comma 11 del D.L. 112/2008.

Il giudice del rinvio, in merito, ha osservato, sulla base del principio di diritto enunciato dalla Cassazione, che il decreto ministeriale in esame (n. 342/2009) era illegittimo; quanto ai profili risarcitori derivanti dall’illegittima risoluzione del rapporto di lavoro dirigenziale, nell’operarne una quantificazione, il giudice escludeva il ristoro del danno biologico e, con riguardo al danno patrimoniale, faceva riferimento, da un lato, alle retribuzioni perdute nel periodo tra il 3 settembre 2009 e il 31 ottobre 2010, data di scadenza del biennio di trattenimento in servizio, e, dall’altro, alla “maggiore indennità di buonuscita”. I relativi importi venivano quantificati da un CTU opportunamente incaricato.

A dire del giudice, non poteva invece essere riconosciuta, neanche sotto forma di perdita di chance, in difetto di esplicita domanda in tal senso, la retribuzione di risultato, atteso che essa “postula(va) una positiva verifica circa il conseguimento, da parte del dirigente, degli obiettivi prefissati”.

Senonché, dal complessivo importo spettante a titolo di risarcimento andavano decurtate le somme che il lavoratore, nel medesimo arco temporale, aveva comunque percepito come pensione d’anzianità, e ciò in quanto, mancando nella specie un dictum giudiziale di ripristino del rapporto di lavoro che avrebbe reso ripetibili le somme erogate dall’INPS, a dire del giudice si sarebbe verificata, in difetto di detrazione dell’aliunde perceptum, un’indebita locupletazione del lavoratore stesso.

Rispetto alla sentenza di secondo grado sopra descritta, il lavoratore proponeva ricorso in cassazione, cui il Ministero resisteva con controricorso. Tra i vari motivi, il ricorso del dirigente verteva sulla indebita detrazione di quanto corrisposto medio tempore a titolo di pensione di anzianità dal risarcimento del danno da licenziamento illegittimo, effettuata dal giudice di appello. Secondo il ricorrente, infatti, solo il compenso da lavoro percepito durante il c.d. periodo intermedio (i.e., intercorrente tra il licenziamento e la sentenza di annullamento) può comportare la riduzione del risarcimento per il principio della compensatio lucri cum damno, mentre il trattamento pensionistico non sarebbe in alcun modo ricollegabile al licenziamento illegittimo e non sarebbe detraibile anche qualora vengano, come nella specie, a cristallizzarsi gli effetti del licenziamento per effetto della mancata reintegra in servizio.

Detto motivo di ricorso è stato ritenuto fondato da parte dei giudici della Corte di Cassazione. In particolare, tra i motivi di accoglimento del ricorso, i giudici evidenziano di aver “più volte affermato il principio, da cui non v’è ragione di discostarsi, che non è detraibile come aliunde perceptum il trattamento pensionistico, potendosi considerare compensativo (quale aliunde perceptum) del danno arrecato dal licenziamento non qualsiasi reddito percepito, ma solo quello conseguito attraverso l’impiego della medesima capacità lavorativa”.

La Corte di Cassazione evidenzia, altresì, come le Sezioni Unite (Cass. S.U. n. 12194/02) abbiano, già in epoca risalente, precisato che “il diritto a pensione discende dal verificarsi di requisiti di età e contribuzione stabiliti dalla legge, prescinde del tutto dalla disponibilità di energie lavorative da parte dell’assicurato che abbia anteriormente perduto il posto di lavoro, né si pone di per sé come causa di risoluzione del rapporto di lavoro (cfr. Cass. 28 aprile 1995, n. 4747), sicché le utilità economiche che il lavoratore illegittimamente licenziato ne ritrae dipendono da fatti giuridici del tutto estranei al potere di recesso del datore di lavoro, non sono in alcun modo causalmente ricollegabili al licenziamento illegittimamente subito e si sottraggono per tale ragione all’operatività della regola della compensatio lucri cum damno”.

Pertanto, le relative somme non possono configurarsi come “un lucro compensabile col danno”, ossia come un effettivo incremento patrimoniale del lavoratore, in quanto “a fronte della loro percezione sta un’obbligazione restitutoria di corrispondente importo”.

Detta compensazione, inoltre, non può riconoscersi quando “il medesimo rapporto si ponga, invece, in termini di soggezione a divieti più o meno estesi di cumulo tra la pensione e la retribuzione, giacche’ in tali evenienze la sopravvenuta declaratoria di illegittimità del licenziamento travolge ex tunc il diritto al pensionamento e sottopone l’interessato all’azione di ripetizione di indebito da parte del soggetto che eroga la pensione”, ossia l’INPS.

La Cassazione continua illustrando come, più di recente, le Sezioni Unite (sent. n. 12564/2018) abbiano osservato che “quando la condotta del danneggiante costituisce semplicemente l’occasione per il sorgere di un’attribuzione patrimoniale che trova la propria giustificazione in un corrispondente e precedente sacrificio, allora non si riscontra quel lucro che, unico, può compensare il danno e ridurre la responsabilità”.

Pertanto, pare sussistere una ragione giustificatrice che non consente il computo della pensione di reversibilità in differenza alle conseguenze negative che derivano dall’illecito, poiché detto trattamento previdenziale “non è erogato in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dal danneggiato, ma risponde a un diverso disegno attributivo causale, che si pone quale causa del beneficio individuabile nel rapporto di lavoro pregresso, nei contributi versati e nella previsione di legge: tutti fattori che si configurano come serie causale indipendente”.

La perdita di interesse del lavoratore alla ricostituzione del rapporto, anche de facto, mediante un provvedimento di reintegra e per effetto del raggiungimento del termine biennale di trattenimento in servizio, non esclude che vi sia la prosecuzione de iure dello stesso, considerato l’accertamento giudiziale dell’illecita risoluzione del rapporto. Dal ciò consegue – a dire della Suprema Corte e unitamente alla responsabilità risarcitoria del datore di lavoro, sul quale permane l’obbligo contributivo – la ripetibilità delle somme erogate nel biennio di riferimento a titolo pensionistico da parte dell’INPS. È seguito, pertanto, l’accoglimento del motivo di ricorso avanzato dal lavoratore da parte della Corte di Cassazione.

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