Osservatorio

L’illecito utilizzo dell’auto aziendale può ledere il vincolo fiduciario (Andrea Di Nino, Sintesi – Ordine dei Consulenti del Lavoro, luglio 2021)

26 Luglio 2021

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11644 del 4 maggio 2021, ha affermato che è legittimo il licenziamento del lavoratore che, in possesso di autovettura aziendale, cerchi di “mascherare la realtà, denunciando un falso sinistro” a seguito dell’illegittimo utilizzo della stessa.

I fatti vedono, nel concreto, il dirigente medico di un’azienda unità sanitaria locale (“AUSL”) dissimulare un sinistro, avvenuto la sera dell’11 gennaio 2017, alla guida della propria auto aziendale, con lo scopo di occultare l’uso improprio della stessa, dichiarando nella denuncia aziendale che esso era avvenuto la mattina seguente, in circostanze differenti, quando egli aveva effettivamente necessità del mezzo per ragioni servizio.

Ciò costituiva, tra le altre, ulteriori violazioni alle norme interne all’azienda in merito all’utilizzo dei veicoli aziendali, come l’esclusività rispetto ai compiti d’ufficio, il divieto di detenere l’auto presso la propria abitazione privata, l’obbligo di compilare il libretto di marcia, etc.

A seguito di tale condotta, il datore di lavoro operava un recesso in tronco, motivato non tanto dall’utilizzo con modalità irregolari del mezzo aziendale, quanto nell’avere il dipendente tenuto l’azienda all’oscuro dei fatti attinenti all’incidente, cercando di mascherare la realtà mediante la denuncia di un falso sinistro.

Sul punto, la Corte territoriale ha ritenuto che fosse indubbio che l’unico incidente che aveva coinvolto il lavoratore fosse quello della sera dell’11 gennaio, essendo inverosimile che potessero essersi verificati due sinistri sullo stesso mezzo ad appena dodici ore di distanza. Tale eventualità era stata, inoltre, smentita dall’istruttoria.

A seguito del ricorso operato dal lavoratore avverso la sentenza di secondo grado, la Cassazione – nella disamina dei fatti analizzati nei primi due gradi di giudizio – ha osservato, anzitutto, come l’affermazione “inverosimile” utilizzata dalla Corte di Appello abbia due ordini di lettura: in particolare, detta corte potrebbe aver sostenuto che non fosse possibile il verificarsi dei due incidenti, oppure che non fosse probabile che ciò fosse accaduto.

Poiché è palese che una tale impossibilità non è predicabile” – ha osservato la Suprema Corte – “è evidente che la lettura della motivazione debba essere l’altra, ovverosia che la Corte ha ritenuto poco probabile che il lavoratore avesse fatto due incidenti con lo stesso mezzo a distanza ravvicinata di tempo“.

Tale costruzione probabilistica, per quanto sintetica e contratta, non può comunque dirsi illogica, pertanto “va da sé che non vi sia stata violazione delle regole sull’onere probatorio, avendo in sostanza la Corte ritenuto provato che l’incidente fosse stato solo uno e solo quello, pacificamente verificatosi, del giorno precedente“.

In merito all’avvenuto licenziamento, la Corte territoriale ha ritenuto che l’illecito non fosse da riportare alle ipotesi del codice disciplinare applicato riferite al mero “occultamento da parte del dirigente di fatti e circostanze relativi ad illecito uso, manomissione, distrazione o sottrazione di somme o beni di pertinenza dell’amministrazione o ad esso affidati“, bensì alla più grave fattispecie che contempla l’ipotesi di “atti e comportamenti […] seppure estranei alla prestazione lavorativa, posti in essere anche nei confronti del terzo, di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure temporanea del rapporto di lavoro ai sensi dell’art. 2119 c.c.“.

La Suprema Corte ha osservato come, d’altra parte, una cosa sia “il mero occultamento di un danno al mezzo“, mentre “altra e più grave cosa è l’avere cercato di mascherare la realtà, denunciando un falso sinistro“.

Su tale ricostruzione fattuale – a dire dei giudici della Cassazione – la Corte territoriale ha incentrato la propria valutazione di gravità e di proporzionalità dell’accaduto rispetto alla sanzione applicata dall’azienda: il comportamento del lavoratore è stato, in concreto, idoneo a ledere il nesso fiduciario.

La Corte di Cassazione ha quindi rigettato il ricorso presentato dal lavoratore, condannandolo al pagamento delle spese di rito.

 

Fonte: Sintesi

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