Martedì 18 ottobre, De Luca & Partners e HR Capital hanno organizzato un nuovo HR Breakfast.
I relatori Stefania Raviele, Salary Partner di De Luca & Partners, Claudia Cerbone, Associate di De Luca & Partners e Roberta De Felice, Consulente del Lavoro di HR Capital S.r.l., hanno fatto il punto sul Gender Gap, con un focus tecnico e normativo sulla parità di genere, sul “nuovo” concetto di discriminazione e sul percorso di certificazione, illustrando i vantaggi per i datori di lavoro.
“Con il termine Gender Gap si indica il divario fra il genere maschile e femminile nel mondo. L’Italia nel luglio 2021, ispirandosi alla strategia europea, ha predisposto la Strategia Nazionale sulla Parità di Genere 2021-2025, di cui la prima espressione è stata la Legge n. 162/2021 sulla parità salariale.
La Legge n. 162/2021 recante modifiche al Codice delle Pari Opportunità è finalizzata a favorire l’occupazione femminile in condizioni di parità di salario e opportunità di crescita professionale con gli uomini.
La Legge n. 162/2021 introduce due importanti misure:
Quanto sopra, anche nell’ottica della c.d. “diversity and inclusion” e, dunque, quale grande opportunità per le aziende di porsi nei confronti dei competitor in una nuova ottica, sia in termini di reputazione che di produttività.
Info a: comunicazione@hrcapital.it
Con la sentenza n. 21773 dell’8 luglio 2022, la Corte di Cassazione si è espressa in merito alla legittimità del licenziamento per giusta causa intimato ad una dipendente sorpresa, durante il periodo di congedo straordinario concessole, a lavorare presso il negozio di cui era titolare il compagno, anch’egli dipendente della società.
In particolare, la Corte d’appello di Bologna aveva respinto, in secondo grado, il reclamo proposto dalla lavoratrice, confermando la sentenza di primo grado con cui la donna si era vista rigettare l’impugnativa del licenziamento per giusta causa intimato dal datore di lavoro. Detto licenziamento, avvenuto nell’agosto 2016, veniva comunicato alla dipendente per avere lavorato presso il negozio di cui era titolare il compagno durante il periodo di congedo straordinario concessole per assistere la figlia portatrice di handicap in situazione di gravità, ai sensi dell’art. 42, comma 5, D.Lgs. 151/2001.
La dipendente era stata colta sul fatto da parte di un investigatore privato, incaricato dalla società datrice di lavoro di pedinare il compagno della stessa, anch’egli proprio dipendente. Quest’ultimo, in particolare, era stato sorpreso a lavorare presso il medesimo negozio – di cui era titolare – nel corso di un’assenza per malattia.
A seguito del licenziamento e avverso le pronunce dei primi due gradi di giudizio, dunque, la lavoratrice ricorreva in Cassazione con diversi motivi di doglianza.
Nel dettaglio, la dipendente riteneva che non fosse stato effettivamente individuato l’oggetto dell’onere probatorio in merito alla giusta causa di licenziamento, che la sentenza impugnata ha ritenuto essere stato assolto dal datore di lavoro. Inoltre, la lavoratrice lamentava lo scarso approccio critico della Corte d’appello ai vari elementi di prova raccolti dal datore di lavoro: a dire della donna, infatti, la Corte d’appello avrebbe recepito “senza il necessario apprezzamento critico le relazioni investigative, le foto e i filmati alle stesse allegati, nonché le dichiarazioni rese dagli investigatori escussi come testimoni, senza neppure rilevare le contraddizioni in cui questi ultimi sarebbero incorsi”.
Nell’ambito del terzo grado di giudizio, la Suprema Corte ha ritenuto inammissibili i motivi avanzati dalla lavoratrice e ha rigettato il ricorso. Nel dettaglio, i giudici hanno ritenuto che, in secondo grado, i giudici di merito non abbiano considerato gli elementi suddetti come facenti piena prova, bensì abbiano valutato gli stessi “unitariamente agli altri dati probatori acquisiti”, ritenendo che fossero, nel complesso, adatti a dare dimostrazione della condotta contestata alla lavoratrice mediante il licenziamento.
La contribuzione al Fondo Pensione Nazionale per il personale delle Banche di Credito Cooperativo viene ulteriormente incrementata a decorrere dal mese di ottobre 2022. In particolare, l’aliquota contributiva a carico del lavoratore è aumentata dello 0,10%.
Sulla retribuzione da corrispondere nel mese di ottobre 2022 ai lavoratori non iscritti a Feneal – Uil, Filca – Cisl e Fillea – Cgil, i quali non hanno manifestato espressamente la non accettazione, le aziende devono effettuare la trattenuta a titolo di contributo contrattuale.
A decorrere dal 1° ottobre 2022, il contributo a carico dell’azienda, sui minimi tabellari, è pari al 2,00%.
A far data dal 1° ottobre 2022 è istituita un’apposita aliquota contributiva pari allo 0,20%, destinata specificatamente al “Fondo territoriale per la formazione e incremento delle competenze professionali dei lavoratori”, istituito presso ogni Cassa Edile/Edilcassa.
Sempre a decorrere dal 1° ottobre 2022, in carenza di una disciplina regionale sulla trasferta regionale, essa – anche nell’ipotesi di cantieri con durata superiore a tre mesi – comporterà che l’impresa effettuerà tutti gli adempimenti per i propri Lavoratori in trasferta presso la propria Cassa Edile di provenienza, per tutta la durata della trasferta stessa.
A partire dalla mensilità di ottobre 2022 sono istituiti nuovi importi in tema di reperibilità:
Dal medesimo periodo, l’orario ai fini del calcolo del riposo fisiologico sarà considerato continuativo qualora l’intervallo tra due interventi notturni fosse pari o inferiore a 2 ore.
A decorrere dal 1° ottobre 2022 è previsto un aumento dei minimi retributivi tabellari dei seguenti CCNL:
Nel mese di ottobre 2022 è prevista l’erogazione di importi a titolo di “una tantum” per i dipendenti i cui rapporti di lavoro sono disciplinati dai seguenti CCNL:
In merito al contratto di espansione, così come modificato dalla Legge 234/2021 (c.d. “Legge di Bilancio 2022”), l’INPS con la circolare n. 88 del 25 luglio 2022, ha fornito alcune istruzioni operative.
E’ stato prorogato sino a tutto il 2023 il regime sperimentale per la stipula di contratti di espansione imponendo un limite minimo non inferiore a 50 unità lavorative, anche calcolate complessivamente in caso di aggregazione stabile di imprese con un’unica finalità produttiva o di servizi.
Il contratto di espansione garantisce a tutti i lavoratori, a cui mancano meno di 5 anni alla pensione, di uscire anticipatamente dal mercato del lavoro ricevendo un’indennità mensile pari al trattamento pensionistico lordo maturato al momento della cessazione del rapporto. L’indennità può essere erogata a tutti i lavoratori iscritti al fondo dei lavoratori dipendenti o fondi assimilatati assunti a tempo indeterminato, purché vogliano risolvere il rapporto entro il 30 novembre 2023. Rimangono esclusi i lavoratori che vogliano accedere alla pensione di vecchiaia con requisiti diversi da quelli ordinari (ad es. pensione anticipata “Opzione Donna”).
L’indennità viene corrisposta fino alla prima decorrenza dei requisiti per l’accesso alla pensione, sia essa di vecchiaia che anticipata, e fino al raggiungimento del relativo requisito contributivo.
Nel contratto di espansione sottoscritto in sede governativa, può essere presentato un solo piano di esodo annuale per ciascuna annualità 2022 e 2023.
Il piano di esodo deve essere compilato, con l’indicazione del numero massimo di lavoratori interessati, la presunta data di risoluzione del rapporto di lavoro uguale per tutti i lavoratori coinvolti, nonché la data per l’esodo che non può essere successiva al 30 novembre, per ogni anno di riferimento.
Il datore di lavoro, inoltre, deve ottenere una garanzia fideiussoria bancaria, per presentare domanda all’INPS, al fine di garantire l’assolvimento agli obblighi contributivi. L’importo complessivamente dovuto all’Istituto deve così essere maggiorato di una parte variabile pari almeno al 15%, in funzione delle successive determinazioni adottate dall’Istituto.
Al termine del piano di esodo, l’INPS effettuerà una verifica a consuntivo, procedendo all’erogazione di eventuali rimborsi o alla richiesta di eventuali ulteriori somme nei confronti del datore di lavoro.
Il datore di lavoro è tenuto a trasmettere, alla sede INPS territorialmente competente, la seguente documentazione:
1) copia del contratto di espansione sottoscritto presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali;
2) la richiesta dell’accreditamento e variazione dell’indennità mensile in argomento (c.d. Modulo SC96);
3) la domanda di autorizzazione all’accesso al PRAT (portale delle prestazioni atipiche) per il personale o il delegato individuato dal datore di lavoro a operare sull’applicativo. Tale domanda deve essere presentata almeno 90 giorni prima della data di ingresso nella presentazione.
L’INPS rammenta, da ultimo, che non è ammessa la presentazione un numero di domande di certificazione del diritto superiore del 20% rispetto al numero dei lavoratori indicati nel contratto di espansione, in riferimento al piano di esodo annuale.
L’Agenzia delle Entrate, con risposta n. 405 del 2 agosto 2022, ha fornito alcuni chiarimenti in merito alla tassazione da applicare all’indennità riconosciuta ai dipendenti autorizzati a servirsi del proprio mezzo per compiere le trasferte fuori dal comune dove ha sede l’azienda.
La normativa di riferimento è rinvenibile nell’art. 51, comma 1, del TUIR che considera reddito di lavoro dipendente “tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro». Questo estratto normativo sancisce il c.d. principio di onnicomprensività che include nel reddito di lavoro dipendente tutte le somme e i valori percepiti dal dipendente in relazione al rapporto di lavoro, ivi inclusi i rimborsi spesa, al netto delle deroghe previste dai commi successivi del medesimo articolo.
Per quel che ci interessa, il comma 5 dell’art. 51 del TUIR disciplina il regime fiscale delle indennità erogate al dipendente per le trasferte effettuate, delineando due diversi regimi di tassazione a seconda che le prestazioni lavorative siano o meno svolte nel territorio del Comune in cui è ubicata la sede di lavoro abituale.
In particolare, se le prestazioni vengono svolte:
Al riguardo, il Ministero delle Finanze, con circolare n. 326/1997, ha precisato che – a differenza delle spese sostenute per i viaggi effettuati con mezzi pubblici (ad es. trasporto aereo o ferroviario) facilmente documentabili mediante l’esibizione dei relativi biglietti – la determinazione della spesa per i viaggi computati con mezzi propri deve essere quantificata dal datore di lavoro sulla base di elementi concordanti diretti e indiretti.
La stessa Agenzia delle Entrate, con la risoluzione del 30 ottobre 2015, n. 92/E, ha, altresì, chiarito che:
L’istante ha necessità di autorizzare, in presenza di particolari esigenze di servizio, i dipendenti ad utilizzare il proprio mezzo di trasporto per l’esecuzione delle trasferte, prevedendo il riconoscimento di un indennizzo a ristoro delle spese sostenute, solo qualora esse siano svolte al di fuori del territorio comunale. Tale indennizzo è quantificato in misura pari alle spese che il dipendente sosterrebbe qualora utilizzasse un mezzo di trasporto pubblico ed è corrisposto alla stregua della considerazione analitica della spesa effettivamente sostenuta. L’indennità erogata ha, pertanto, valore sostitutivo delle spese direttamente sostenute dal lavoratore con il mezzo proprio per il viaggio.
L’istante ha allegato alla richiesta di interpello la circolare interna recante le modalità di indennizzo, la quale prevede che “l’utilizzo del mezzo proprio può realizzarsi solo in presenza di particolari ed eccezionali esigenze di servizio ed alle seguenti condizioni:
Nella circolare si legge, altresì, che il dipendente otterrà dalla società la sola copertura assicurativa qualora dovesse decidere di utilizzare il proprio mezzo pur non ricorrendo una delle ipotesi sopra indicate. Il dipendente, tuttavia, non avrà diritto alla liquidazione dell’indennizzo.
L’Agenzia delle Entrate ritiene che l’indennizzo basato sulle tariffe del trasporto pubblico, se dovesse risultare di importo pari o inferiore rispetto a quello eventualmente determinato sulla base delle tabelle ACI, sarà da considerarsi non imponibile. Pertanto, detto indennizzo non andrà a concorrere alla base imponibile per il calcolo dei redditi da lavoro dipendente.
Qualora, invece, l’indennità di trasferta determinata sulla base delle tariffe del trasporto pubblico dovesse risultare maggiore rispetto a quella determinata sulla base delle tabelle ACI, la differenza dovrà essere considerata come reddito di lavoro dipendente ai sensi dell’art. 51 del Tuir e, pertanto, imponibile ai fini della determinazione del reddito e il calcolo della relativa tassazione.
Con la sentenza n. 19623 del 17 giugno 2022, la Corte di Cassazione si è espressa in tema di risarcimento del danno biologico e morale dovuta alla prolungata esposizione di un lavoratore all’amianto. Gli eredi del lavoratore – deceduto a causa di una patologia collegata all’esposizione al materiale tossico – hanno lamentato la responsabilità ex. art. 2087 c.c. del datore di lavoro per non aver attuato le dovute misure di prevenzione e tutela sul luogo di lavoro.
Nel caso di specie, è stato rilevato che il lavoratore fosse soggetto a due agenti cancerogeni differenti: il tabagismo, in quanto fumatore abituale che per anni avrebbe fumato 15-20 sigarette al giorno, e l’esposizione all’amianto, in quanto lo stesso prestava attività lavorativa di saldatura.
Ai fini della determinazione del danno patrimoniale, la Cassazione ha corroborato l’interpretazione della Corte d’Appello che, in seconda istanza, ha evidenziato come esistesse un concorso di cause lesive che ha cagionato un evento unico e indivisibile. Alla luce della presenza di un duplice fattore scaturente, i giudici hanno ritenuto di dover applicare il principio dell’equivalenza delle concause ex artt. 40 e 41 c.p., in quanto non risultasse possibile “effettuare una ripartizione causale tra i due fattori cancerogeni, entrambi egualmente responsabili della causazione dell’evento dannoso”.
Pertanto, risultando impossibile effettuare una corretta ripartizione causale tra i due fattori cancerogeni, gli stessi devono essere ritenuti egualmente responsabili dell’aver cagionato l’evento morboso, conseguendone che non venga intaccata la ripartizione della responsabilità tra le parti, ma che questo impatti in modo considerevole nella definizione dell’entità del danno, notevolmente ridotta rispetto alle richieste della famiglia.
Quale secondo motivo di ricorso, gli eredi hanno insistito per il riconoscimento del risarcimento da danno morale, deducendo come il lavoratore fosse consapevole di essere esposto ad agenti morbigeni e come il rilevare che molti colleghi continuassero a contrarre gravi patologie di natura oncologica di entità tale da causarne sovente la morte avesse ingenerato in lui un’incertezza sul proprio vivere, modificando in peius la sua vita quotidiana e inducendolo a sottoporsi a numerosi e periodici controlli medici. Ciò aveva originato, nella mente del lavoratore, un assiduo ripensare alla possibilità di ammalarsi e poi, probabilmente, morire.
In secondo grado, però, la Corte d’appello ha negato agli eredi il riconoscimento del danno non patrimoniale a fronte di una mancata sussistenza del danno morale e/o esistenziale, ritenendo inapplicabile il ricorso alle presunzioni anche semplici e ritenendo che, al fine di delineare il danno non patrimoniale, questo dovesse essere debitamente provato.
La Cassazione, tuttavia, come già chiarito dalla Sezione Lavoro con la sentenza n. 24217 del 2017, ha cassato la decisione di secondo grado, ritendendo che “il danno derivante dallo sconvolgimento dell’ordinario stile di vita è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato, quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, rafforzati dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, art. 8, sottolineando, ancora, che la prova del pregiudizio subito può essere fornita anche mediante presunzioni”.
Da tale orientamento deriva che il danno biologico dovuto ad uno sconvolgimento della normale vita privata e costituendo “un sofferenza interna del soggetto” si concretizza come “lesione di diritti inviolabili della persona, oggetto di tutela costituzionale”: pertanto, se presente e dimostrato anche attraverso l’uso di presunzioni, costituisce oggetto di risarcimento del danno.
In conformità con le modifiche introdotte dal Decreto Sostegni bis all’art. 19 del D.Lgs. 81/2015, fino al 30 settembre 2022 la durata contratto a tempo determinato può essere superiore a 12 mesi (entro i 24 mesi) anche in presenza di specifiche esigenze previste dal CCNL. Dopo il 30 settembre sarà possibile stipulare un primo contratto a termine di durata superiore ai 12 mesi (sempre entro i 24 mesi) solo per le esigenze di cui alle lett.re a) e b) dell’art. 19, ossia per esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori nonché per esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.
A decorrere dall’anno 2022, le aziende attribuiscono, a beneficio di tutti i lavoratori dipendenti, piani e strumenti di “flexible benefits” del valore di Euro 150 per l’anno 2022, Euro 150 per l’anno 2023 ed Euro 150 per l’anno 2024, da erogare entro il mese di settembre di ciascun anno di riferimento e comunque in base alla regolamentazione indicata dalle singole aziende.
È incrementata da Euro 5,50 a Euro 6,50 l’indennità in cifra fissa per turno notturno di cui all’art. 20 del vigente CCNL e da Euro 3,50 a Euro 4,50 l’indennità in cifra fissa per turno notturno di cui all’art. 20 del Cap. XVII (Settori Lampade e Display) con decorrenza dal 1° settembre 2022.
In aggiunta ai benefici derivanti dalla “Gestione Speciale” dell’Enbic e agli eventuali benefici aziendalmente già stabiliti, le Parti firmatarie del CCNL hanno concordato anche un “Welfare Contrattuale” obbligatoriamente dovuto al Lavoratore. Tale Welfare Contrattuale sarà a disposizione di tutti i lavoratori in forza, che abbiano superato il patto di prova, nel mese di riconoscimento (1° versamento: settembre 2021; 2° versamento: settembre 2022; 3° versamento: settembre 2023).
Le aziende mettono a disposizione dei lavoratori strumenti di welfare, elevato a Euro 200 a partire dal 2022, con decorrenza dal 1° settembre di ciascuno anno e da utilizzare entro il 31 agosto di ogni anno successivo.
Sono da corrispondere ai dipendenti del settore Televisivo e Radiofonico Euro 250, non riparametrati, a titolo di “una tantum”, con la retribuzione del mese di settembre 2022.
A tutto il personale che al 1° settembre 2022 abbia maturato due anni di servizio ininterrotto presso lo stesso Istituto è corrisposto mensilmente a partire dal 1° settembre 2022 un salario di anzianità di Euro 15. Se il personale percepiva già un salario di anzianità maturato in base ai precedenti contratti tale importo va ad incrementare quanto già percepito.
Entro il 30 settembre 2022, le Direzioni aziendali comunicano alle R.S.U., o in mancanza alle Organizzazioni Sindacali territoriali, l’ammontare complessivo trattenuto a titolo di trattenuta sindacale (i.e. Euro 40 per ciascun dipendente aderente) unitamente al numero complessivo di aderenti alla sottoscrizione e al numero dei dipendenti in forza.
A decorrere dal 1° settembre 2022 è previsto un aumento dei minimi retributivi tabellari dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:
L’Ispettorato Nazionale del Lavoro (l’“INL”), con la nota n. 1451 datata 11 luglio 2022, ha fornito alcuni chiarimenti in merito all’applicabilità del regime sanzionatorio ex art. 1, comma 73, della Legge 234/2021 (c.d. Legge di Bilancio 2022) ai tirocini extracurriculari iniziati prima del 1° gennaio 2022 e proseguiti dopo nonché agli eventuali recuperi contributivi derivanti da tirocini svolti in modo “fraudolento”.
Innanzitutto, l’INL si sofferma sul concetto di illecito di natura permanente. Al riguardo richiama la nota 3/2019 che, se pur in riferimento al reato di somministrazione fraudolenta, ha evidenziato come esso sia caratterizzato “da un intento elusivo di norme contrattuali o imperative che trova ragione d’essere in una apprezzabile continuità dell’azione antigiuridica. La natura permanente dell’illecito, comporta che l’offesa al bene giuridico si protrae per tutta la durata della somministrazione fraudolenta, coincidendo la sua consumazione con la cessazione della condotta la quale assume rilevanza sia ai fini della individuazione della norma applicabile, sia ai fini della decorrenza del termine di prescrizione”.
Pertanto, a decorrere dal 1° gennaio 2022, lo svolgimento in maniera fraudolenta del tirocinio extracurriculare configura un illecito di natura permanente, a cui è applicabile il regime sanzionatorio ex art. 1, comma 723, della Legge di Bilancio.
Per dimostrare la natura fraudolenta occorre provare che il tirocinio si è svolto come un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato.
Muovendo da tali principi, l’INL osserva che la prosecuzione o la conclusione dopo il 1° gennaio 2022 di un tirocinio extracurriculare svolto in maniera fraudolenta comporta l’applicazione del regime sanzionatorio di cui al comma 723 dell’art. 1 della Legge di Bilancio. Nello specifico, detta disposizione stabilisce che il “tirocinio non costituisce rapporto di lavoro e non può essere utilizzato in sostituzione di lavoro dipendente. Se il tirocinio è svolto in modo fraudolento, eludendo le prescrizioni di cui al periodo precedente, il soggetto ospitante è punito con la pena dell’ammenda di 50 euro per ciascun tirocinante coinvolto e per ciascun giorno di tirocinio, ferma restando la possibilità, su domanda del tirocinante, di riconoscere la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a partire dalla pronuncia giudiziale”.
Non trovano, invece, applicazione nel caso di tirocinio fraudolento le sanzioni amministrative di norma applicabili per le ipotesi di riqualificazione del rapporto di lavoro in termini di subordinazione (omessa comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro e omessa consegna della dichiarazione di assunzione).
È fatta, invece, salva la possibilità, su domanda del tirocinante, di chiedere il riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a partire dalla pronuncia giudiziale. Sul punto, l’INL richiama ancora una volta la circolare 530 allorquando sottolinea che è il solo tirocinante a valutare una richiesta in tal senso “che andrà a condizionare il rapporto di tirocinio (…) fin dall’instaurazione, anche se avvenuta in data antecedente al 1° gennaio 2022”
Quanto detto non vale per l’INL con riferimento ai profili previdenziali ed ai conseguenti recuperi contributivi derivanti dal rapporto di tirocinio che, di fatto ha simulato un rapporto di lavoro. Ciò in quanto il recupero contributivo non può ritenersi condizionato alla scelta del lavoratore di adire l’autorità giudiziaria per ottenere il riconoscimento del rapporto di lavoro in capo al soggetto ospitante.
Con la risposta ad interpello n. 383 del 18 luglio 2022, l’Agenzia delle Entrate ha fornito chiarimenti in merito all’opzione di proroga del regime previsto dal “Decreto Crescita” per i lavoratori impatriati.
L’articolo 5, comma 2-bis del Decreto-Legge n. 34/2019, il Decreto Crescita, modificando l’art. 16 del D.Lgs. 147/2015, ha disposto che le previsioni del regime fiscale speciale per lavoratori “impatriati” “si applicano per ulteriori cinque periodi di imposta ai lavoratori con almeno un figlio minorenne o a carico, anche in affido preadottivo” o qualora “i lavoratori diventino proprietari di almeno un’unità immobiliare di tipo residenziale in Italia, successivamente al trasferimento in Italia o nei dodici mesi precedenti al trasferimento”.
Il beneficio è estendibile anche a coloro i quali avevano già trasferito la residenza prima dell’anno 2020 (decorrenza della nuova previsione normativa) e che alla data del 31 dicembre 2019 risultavano beneficiari del regime impatriati previsto dall’articolo 16 sopra citato. Ciò, previo versamento di un importo pari al 10 per cento (ovvero al 5 per cento in alcuni casi specifici) dei redditi di lavoro dipendente e di lavoro autonomo agevolabili prodotti in Italia e relativi al periodo d’imposta precedente a quello di esercizio dell’opzione.
Le modalità di versamento e i tempi per ottemperarvi sono stati poi stabiliti dall’Agenzia delle entrate con il provvedimento direttoriale del 3 marzo 2021, prot. n. 60353, secondo il quale gli importi dovuti devono essere versati, in unica soluzione, con il modello di pagamento F24 entro il 30 giugno dell’anno successivo a quello di conclusione del primo quinquennio di fruizione dell’agevolazione in esame.
L’istante, che aveva già trasferito la residenza in Italia prima dell’anno 2020, aveva comunicato all’Agenzia delle Entrate di:
L’istante aveva chiesto, pertanto, di poter ricorrere all’istituto del ravvedimento per versare tardivamente gli importi aggiuntivi dovuti e successivamente di beneficiare dell’estensione quinquennale del regime dei lavoratori impatriati.
L’Agenzia delle Entrate, riprendendo anche i chiarimenti già forniti con la circolare n. 33/E del 28 dicembre 2020, dapprima ha ricordato che (i) l’esercizio di opzione è subordinato al versamento degli importi dovuti entro il termine previsto dal Provvedimento del Direttore dell’Agenzia (prot. N. 60353/2021) e (ii) per i soggetti (come nel caso di specie) per i quali il primo periodo di fruizione dell’agevolazione si è concluso il 31 dicembre 2020 il versamento di quanto dovuto doveva essere effettuato entro 180 giorni.
L’autorità fiscale ha poi chiarito che – laddove il versamento degli importi dovuti sia omesso o carente – il mancato adempimento preclude l’applicazione del beneficio, non essendo ammesso per detta fattispecie il ricorso all’istituto del ravvedimento operoso.
L’Agenzia ha, quindi, concluso che l’istante non può beneficiare del regime agevolato impatriati per ulteriori cinque periodi di imposta proprio a causa dell’errato versamento effettuato ma può recuperare le somme versate ai sensi dell’art. 21 del D. Lgs. 546/1992.
Il Tribunale di Udine, con sentenza depositata il 26 maggio 2022, si è espresso in merito alla fattispecie delle dimissioni per fatti concludenti e alla procedura di “dimissioni telematiche” di cui all’articolo 26 del D.Lgs. n. 151/2015.
In particolare, i fatti oggetto del contendere hanno visto una lavoratrice assentarsi dal lavoro per un periodo prolungato, in particolare dal 14 dicembre 2019 e per oltre i sei mesi successivi, senza alcuna giustificazione. A fronte di tale circostanza, il datore di lavoro recapitava alla lavoratrice, tramite una lettera inviata il 12 giugno 2020, un invito formale a dimettersi. Dato il mancato riscontro della lavoratrice, l’8 luglio successivo veniva inviata al Centro per l’Impiego la comunicazione obbligatoria “Unilav” di cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni.
Detta risoluzione del rapporto di lavoro veniva però impugnata da parte della lavoratrice, in quanto mai erano state da lei rassegnate dimissioni, né comunque presentata la convalida in via telematica prevista dalla legge. La stessa, inoltre, si dichiarava al contempo disponibile a riprendere l’attività lavorativa, previo risarcimento delle retribuzioni maturate e dei relativi contributi previdenziali dovuti per i mesi trascorsi dal momento dell’assenza fino al ripristino del rapporto di lavoro.
L’assenza prolungata, in particolare, veniva motivata dallo stato di “prostrazione psicofisica” dovuto all’essere stata destinata alla “gravosa” attività di consegna delle vivande in determinati comuni, coerentemente all’attività economica svolta dal datore di lavoro.
Dal canto suo, il datore di lavoro eccepiva come il rapporto di lavoro si fosse, in realtà, risolto per esclusiva volontà della lavoratrice, per evidenti fatti concludenti costituiti dall’assenza ingiustificata protrattasi per oltre sei mesi. Tale circostanza era avvalorata dalle confidenze esternate dalla stessa lavoratrice alla propria responsabile di unità, consistenti nell’intenzione di non rientrare più in servizio a seguito delle ferie, iniziate il 9 dicembre 2020, a causa dell’insoddisfazione per il proprio lavoro.
A dire del datore di lavoro, il dichiarato intento della dipendente era, dunque, quello di provocare il recesso datoriale e ottenere, di conseguenza, la Naspi.
In generale, ai giudici del tribunale è risultato innanzitutto incontroverso, nella vicenda in esame, il fatto che la lavoratrice si sia volontariamente assentata in via continuativa dal lavoro a decorrere dal 14 dicembre 2019, senza mai fornire, a riguardo, alcuna giustificazione e senza riscontrare, per un periodo di oltre sei mesi, le missive del datore di lavoro.
Difatti, nonostante la contestazione disciplinare del 31 dicembre 2019 – in cui alla dipendente veniva contestata l’assenza ingiustificata in essere dal 14 dicembre precedente – e la lettera del 12 giugno 2020 – in cui si prendeva atto della risoluzione in “in via di fatto” del rapporto di lavoro e si invitava la lavoratrice a “comunicare le sue dimissioni secondo la modalità telematica vigente” – la dipendente restava silente, confermando di non aver volontariamente dato riscontro a tali comunicazioni per dichiarata assenza di interesse.
La dipendente stessa aveva anche invitato la propria responsabile di unità a non metterla in turno nel periodo natalizio, poiché “non credeva di rientrare” e si aspettava che sarebbe stata la società, eventualmente, a “doverla licenziare”.
Su queste basi, al giudice è apparso quindi evidente che la lavoratrice “abbia voluto porre fine al rapporto di lavoro con la società […] di sua iniziativa, avendo palesato tale intento […] alla propria responsabile e non essendo più rientrata a lavoro dopo le ferie”. Al di là della fondatezza delle motivazioni della lavoratrice, definite come “postume e piuttosto generiche”, il tribunale ha osservato come “come proprio tali motivazioni siano un chiaro ed ulteriore indice dell’intenzione attorea […] di porre termine alla sua esperienza lavorativa”.
Il giudice osserva, inoltre, come, nonostante la modifica legislativa sopraggiunta nel 2015 in tema di dimissioni e di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, lo scioglimento del contratto di lavoro per mutuo dissenso – e per dimissioni in particolare – sia anzitutto fondato sugli artt. 2118 e 2119 c.c., i quali sanciscono la regola generale della “libera recedibilità” da parte del lavoratore, fatto salvo il periodo di preavviso. Tale libertà di recesso è rimasta immutata, pertanto la sentenza illustra che “le dimissioni possono continuare a configurarsi come valide, almeno in ipotesi specifiche, anche per effetto di presupposti diversi da quelli della avvenuta formalizzazione telematica imposta con la novella del 2015”.
Inoltre, il giudice evidenzia come la Legge delega n. 183/2014 aveva previsto “modalità semplificate per garantire data certa nonché l’autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso della lavoratrice o del lavoratore […]”.
Tale inciso – viene osservato – è rimasto totalmente inattuato nel D.Lgs. n. 151/2015, il contenuto del quale, dunque, sembra poter essere disapplicato di fronte alla fattispecie delle dimissioni per fatti concludenti.
In definitiva, viene ritenuto irragionevole ritenere che, in caso di inerzia del lavoratore nel dimettersi, possa porsi fine al rapporto di lavoro soltanto mediante l’adozione di un licenziamento per giusta causa. In questo caso, infatti, verrebbe intaccata la “libera esplicazione dell’autonomia imprenditoriale” ex art. 41 della Costituzione, sia in termini di rischi (la giustificazione in un ipotetico giudizio) che di costi (c.d. ticket Naspi) e, non da ultimo, si materializzerebbe una “ingiusta sottrazione di risorse” da destinarsi solo a vantaggio di quei lavoratori con effettivo diritto alla Naspi poiché disoccupati involontariamente.
Sulla base di tutte le considerazioni commentate, il riscorso della lavoratrice veniva respinto e il rapporto di lavoro ritenuto cessato definitivamente.
Il contratto collettivo nazionale di lavoro del 22 maggio 2019, decorrente dal 1° settembre 2018, scadrà il prossimo 31 agosto. Le disposizioni ivi previste resteranno in vigore fino al suo rinnovo.
A decorrere dal 1° settembre 2021 le aziende mettono a disposizione dei lavoratori strumenti di welfare del valore di Euro 150, elevato a Euro 200 a partire dal 2022, con decorrenza dal 1° settembre di ciascuno anno e da utilizzare entro il 31 agosto di ogni anno successivo.
Nel mese di agosto 2022, le aziende dovranno procedere con l’erogazione in favore dei propri dipendenti della seconda tranche di “una tantum” previsto per il periodo di vacanza contrattuale, pari ad Euro 100,00.
Destinatari dell’“una tantum” sono i soli lavoratori in forza alla data del 16 maggio 2022, con eventuale frazionamento in quote qualora il rapporto di lavoro non fosse già instaurato all’inizio del periodo interessato dalla vacanza contrattuale.
A decorrere dal 1° agosto 2022 è previsto un aumento dei minimi retributivi tabellari dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:
L’INPS, con il messaggio n. 2622 del 30 giugno 2022, ha fornito chiarimenti circa quanto disposto dall’articolo 10, comma 1-bis, del Decreto-legge n. 24/2022, convertito con modificazioni dalla Legge n. 52/2022.
La menzionata legge ha ulteriormente prorogato le tutele introdotte a seguito della pandemia da COVID-19 per i lavoratori c.d. “fragili” fino al 30 giugno 2022, introducendo, tuttavia, delle modifiche sostanziali in merito alle categorie di lavoratori destinatari della tutela prevista originariamente dal Decreto-legge n. 18/2020.
Ai fini dell’attuazione della norma, occorre far riferimento al Decreto ministeriale n. 5 del 4 febbraio 2022, emanato dal Ministero della Salute di concerto con il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e il Ministro per la Pubblica Amministrazione.
Il decreto, denominato “Individuazione delle patologie croniche con scarso compenso clinico e con particolare connotazione di gravità, in presenza delle quali, fino al 28 febbraio 2022, la prestazione lavorativa è normalmente svolta in modalità agile”, ha, infatti, modificato l’elenco delle patologie croniche in presenza delle quali la prestazione lavorativa deve normalmente essere svolta in modalità “agile”.
Il provvedimento stabilisce, in via ordinaria, il diritto, per i lavoratori in elenco, a:
Solo laddove non sia possibile garantire quanto sopra, coloro che si trovano in condizione di fragilità possono fruire di periodi di assenza per malattia con equiparazione del trattamento di assenza a quello del ricovero ospedaliero.
Per quanto riguarda i soggetti interessati, la norma modifica i criteri per l’individuazione degli aventi diritto, precisando che la tutela viene riconosciuta “esclusivamente per i soggetti affetti dalle patologie e condizioni individuate dal decreto del Ministro della salute adottato ai sensi dell’articolo 17, comma 2, del decreto legge 24 dicembre 2021, n. 221, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 febbraio 2002, n. 11”.
Ai fini del riconoscimento della tutela è, altresì, necessario essere in possesso di una certificazione rilasciata dai competenti organi medico legali delle Strutture territoriali attestante “una condizione di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento di relative terapie salvavita” oppure del “riconoscimento di disabilità con connotazione di gravità ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104”.
Alla luce di quanto di quanto esposto, per il periodo dal 1° aprile al 30 giugno 2022, l’INPS procederà con il riconoscimento della tutela in oggetto, previa valutazione degli Uffici medico legali di competenza, alle sole categorie individuate ai sensi del Decreto ministeriale n. 5/2022 e nel limite di spesa di 3,7 milioni di Euro.
L’Agenzia delle Entrate, con la risposta ad interpello n. 344 del 23 giugno 2022, si è espressa in merito all’assoggettamento fiscale delle somme erogate nell’ambito di un accordo transattivo. Nel caso di specie, l’importo consisteva in una compensazione operata da un datore di lavoro per sanare un annoso contenzioso con diversi dipendenti. A fronte di tale erogazione, riferita a spettanze dovute per gli anni 2010, 2011 e 2012, il datore di lavoro ha ritenuto che il regime di assoggettamento fiscale applicabile fosse quello della tassazione separata e ne ha chiesto conferma all’Agenzia delle Entrate.
Nella sua risposta, l’autorità fiscale ha dapprima fornito la definizione civilistica dell’istituto della transazione, intesa come “il contratto col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro. Con le reciproche concessioni si possono creare, modificare o estinguere anche rapporti diversi da quello che ha formato oggetto della pretesa e della contestazione delle parti” (cfr. art. 1965 c.c.).
In linea con quanto chiarito dal Ministero delle Finanze nella circolare n. 326/1997, l’Agenzia delle Entrate ha poi precisato che “tutte le indennità e le somme o i valori percepiti in sostituzione di redditi di lavoro dipendente, comprese quelle che derivano da transazioni di qualunque tipo, sono assoggettabili a tassazione come redditi di lavoro dipendente”.
Nella risposta all’interpello, sono seguite le opportune considerazioni circa la natura “onnicomprensiva” del reddito di lavoro dipendente, consistente nella “totale imponibilità di tutto ciò che il lavoratore riceve in relazione al rapporto di lavoro”. Sul punto è stato citato l’articolo 49, comma 1, del TUIR secondo il quale:
La medesima circolare del Ministero delle Finanze è stata richiamata anche con riguardo al campo di applicazione della tassazione separata: nella circolare è stato, infatti, chiarito che “le somme e i valori comunque percepiti, al netto delle spese legali sostenute, anche se a titolo risarcitorio o nel contesto di procedure esecutive, a seguito di provvedimenti dell’autorità giudiziaria o di transazioni relativi alla risoluzione del rapporto di lavoro sono sempre assoggettati a tassazione separata”, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, lettera a), ultima parte, del TUIR.
È stato, altresì, evidenziato che il regime della tassazione separata – qualora le somme sostitutive di reddito di lavoro dipendente si riferiscano a redditi che avrebbero dovuto essere percepiti in un determinato periodo d’imposta e, in loro sostituzione, vengono percepite in un periodo d’imposta successivo – si applica ai sensi dell’articolo 17, comma 1, lettera b), del TUIR, in presenza di “emolumenti arretrati per prestazioni di lavoro dipendente riferibili ad anni precedenti, percepiti per effetto di leggi, di contratti collettivi, di sentenze o di atti amministrativi sopravvenuti o per altre cause non dipendenti dalla volontà delle parti”.
Come chiarito nel citato documento di prassi, le somme e i valori percepiti a seguito di transazioni, diverse da quelle relative alla cessazione del rapporto di lavoro, allorquando non è rinvenibile alcuna delle condizioni di cui all’articolo 17, comma 1, lettere b), sono soggetti a tassazione ordinaria.
Alla luce del descritto quadro normativo e di prassi, l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto che le somme corrisposte dall’istante a seguito dell’accordo transattivo debbano concorrere alla formazione del reddito imponibile dei dipendenti per l’intero ammontare ed essere assoggettate a tassazione ordinaria. Ciò in quanto le stesse non vengono erogate in relazione alla cessazione del rapporto di lavoro, né ricorre una delle condizioni di cui all’articolo 17, comma 1, lettera b), del TUIR.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16562 del 29 aprile 2022, si è espressa in merito alle responsabilità del datore di lavoro in merito agli obblighi di valutazione del rischio e di formazione dei lavoratori sotto il profilo della sicurezza sul lavoro.
In particolare, la vicenda trae origine dalla condanna – confermata in sede di appello – alla pena di un anno di reclusione per un datore di lavoro privato a causa del delitto di “omicidio colposo aggravato”, dovuto alla violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni in ambito lavorativo. A detta della corte territoriale, tali violazioni avevano cagionato la morte di un operaio, incaricato di effettuare la manutenzione e la pulizia di un particolare macchinario.
Nell’impugnare la sentenza di secondo grado, l’imputato ha presentato una serie di motivi di ricorso. Nel dettaglio, questi ha contestato la qualifica di “datore di lavoro” assegnatagli nelle sentenze, adducendo di avere attribuiti compiti meramente amministrativi (“ordinaria amministrazione”) da parte del C.d.A. dell’azienda.
Inoltre, l’imputato riteneva di aver delegato le funzioni attinenti all’ambito della sicurezza sul lavoro ad un terzo, e di non dover rispondere del mancato aggiornamento del documento di valutazione dei rischi (“DVR”), considerata l’assenza della qualifica di datore di lavoro.
Tanto rappresentato da parte della persona imputata, i giudici della Corte di Cassazione hanno comunque individuato in questa la figura del datore di lavoro, considerato il suo ruolo di legale rappresentante della società e le sue prerogative in merito all’esercizio dei poteri decisionali e di spesa. In dettaglio, è stata rigettata la tesi dell’imputato vertente sull’esclusione delle responsabilità in merito alla sicurezza dei lavoratori, dovuta ai compiti di mera natura ordinaria formalmente assegnati allo stesso. Secondo la Corte, infatti, le attribuzioni dell’imputato erano tali da garantirgli l’esercizio di “potestà funzionali organizzative, decisionali, gestionali e di spesa inclusa la realizzazione delle misure di sicurezza previste per legge”, così da “costituire in capo al medesimo soggetto un coacervo di tutti gli obblighi che convergono in materia di valutazione del rischio, di posizione di garanzia, di adempimenti datoriali”.
La confusione tra il ruolo di datore di lavoro e di “responsabile del servizio di prevenzione e di protezione” (“RSPP”) ha inoltre deposto per “una colpevole opacità e disfunzione organizzativa”, a dire della Suprema Corte, che ha aggravato la posizione dell’imputato.
I poteri de facto esercitati dall’imputato, viene altresì osservato, “sebbene formalmente limitati all’ordinaria amministrazione, comunque comprendevano ogni profilo gestorio e organizzativo sulla produzione, sul controllo degli impianti, sulle procedure lavorative, sulla formazione e informazione che in concreto hanno svolto un determinante ruolo causale dell’evento mortale”.
Da tale piena qualifica datoriale, emerge conseguentemente la responsabilità per gli altri due obblighi contestati sul piano della colpa specifica e della causalità materiale.
In primo luogo, a dire della Suprema Corte, l’omessa completa ed esauriente valutazione del rischio connesso all’impianto presso il quale operava la vittima è attività che “sul piano operativo, cognitivo, progettuale”, rientrava pienamente nei compiti dell’imputato. Ciò sia innanzitutto come soggetto titolare del servizio di prevenzione e protezione, ruolo interpretato in termini meramente formali, e. contemporaneamente. come soggetto apicale con poteri decisionali e organizzativi su tutta l’attività produttiva.
Sul punto, i giudici hanno osservato che “l’imputato avrebbe dovuto in particolare valutare rischi e misure di prevenzione sull’uso del macchinario dove ha trovato la morte (omissis), in relazione specifica alle mansioni e ai compiti attribuiti alla vittima dallo stesso imputato”.
Nella sua qualità di titolare del ruolo datoriale, l’imputato avrebbe dovuto inoltre tenere aggiornato il DVR anche con la mansione cui era addetto il lavoratore infortunato in relazione all’uso del macchinario che lo ha travolto.
Sul punto, la Corte ha osservato che “è proprio dalla duplice qualifica di responsabile del servizio di prevenzione e protezione e di datore di lavoro che emerge comunque il compito in capo alla medesima persona di valutare, elaborare, prevenire e gestire il rischio, ivi compreso l’aggiornamento del documento di valutazione del rischio che peraltro è compito indelegabile del datore di lavoro”.
In conclusione, secondo i giudici della Cassazione, alla qualifica di datore di lavoro corrisponde “l’obbligo di formazione e informazione dei lavoratori” che, nel caso in esame, risulta omesso da parte dell’imputato. Anche su questo punto ascrivere ad altro soggetto il dovere di informazione, formazione ed addestramento del lavoratore deceduto, costituisce “una mera asserzione che non trova riscontro in alcun atto formale di delega o comunque di incarico specifico alla formazione”.
Anche a voler ritenere di avere sostanzialmente incaricato altri di adempiere all’obbligo di formare e addestrare il lavoratore deceduto, la Suprema Corte ha evidenziato che “l’omessa cura dell’addestramento e dell’istruzione professionale del lavoratore avrebbe potuta e dovuta essere controllata e corretta dall’imputato qualora altri soggetti eventualmente incaricati non vi avessero utilmente provveduto”.
I motivi di ricorso dell’imputato venivano dunque integralmente respinti, acclarata la mancanza dell’esercizio del ruolo di vigilanza, di controllo e di cura dell’istruzione professionale sull’uso della macchina e degli impianti correlati in relazione ai rischi del caso di specie.
Alla luce delle proroghe intervenute ad opera della contrattazione collettiva e fatti salvi gli accordi di miglior favore sottoscritti in materia, in mancanza di un accordo sul premio di risultato entro maggio 2022, i datori di lavoro sono tenuti ad erogare nel mese di luglio 2022 i seguenti importi:
In occasione del congedo parentale, a far data dal 1° luglio 2022, è riconosciuto ai lavoratori un trattamento di assistenza aggiuntivo a quello previsto dalla legge, così modulato:
Dalla medesima data, l’aliquota contributiva a carico dell’azienda da versare a titolo di previdenza complementare è incrementata in ragione dello 0,10% della retribuzione utile per il calcolo del T.F.R. e, pertanto, sarà pari al 2,30% di detta retribuzione. L’aliquota contributiva a carico del lavoratore rimane fissata all’1,40% della retribuzione utile per il calcolo del T.F.R.
In virtù della vacanza contrattuale successiva al triennio di validità del CCNL (1° gennaio 2019 – 31 dicembre 2021), dal mese di luglio 2022 sarà dovuto ai lavoratori dipendenti un elemento provvisorio della retribuzione pari al 50% dell’indice “IPCA” applicato ai minimi contrattuali vigenti, inclusa l’ex indennità integrativa speciale.
Dalla data di decorrenza del rinnovo contrattuale l’indennità cesserà di essere erogata e sarà assorbita con gli eventuali aumenti contrattuali per il periodo della vacanza del contratto.
A decorrere dal mese di luglio 2022, ai dipendenti che effettuano una prestazione lavorativa superiore a 7 ore giornaliere, con un intervallo di almeno 30 minuti collocato nella fascia oraria dalle 12.00 alle 15.00, deve essere riconosciuto un buono pasto del valore di 5,42 Euro (rispetto ai precedenti 5 Euro), da fruirsi nel corso del previsto intervallo, per ogni giorno di effettivo servizio.
Entro il 20 luglio 2022 i datori di lavoro dovranno versare il contributo mensile obbligatorio per l’attività di rappresentanza contrattuale imprenditoriale (Euro 0,50 per ciascun dipendente in forza) riferito al secondo trimestre del 2022.
Entro il 31 luglio 2022, i datori di lavoro dovranno versare le trattenute operate a titolo di contributo contrattuale conformemente alle istruzioni del CCNL, a mezzo di bonifico bancario ordinario, specificando la denominazione dell’azienda versante ed il luogo in cui essa svolge la sua attività.
Il versamento consiste nei 40 Euro di contributo trattenuto nella busta paga di maggio 2022 da parte dell’azienda nei confronti dei lavoratori che non abbiano manifestato il proprio diniego.
A decorrere dal 1° luglio 2022 è previsto un aumento dei minimi retributivi tabellari dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:
Nel mese di luglio 2022 è prevista l’erogazione di importi a titolo di “una tantum” ai sensi dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:
L’Agenzia delle Entrate, con la risposta ad interpello n. 294 del 24 maggio 2022, ha fornito chiarimenti circa la possibilità per i datore di lavoro di rimborsare ai dipendenti appartenenti alla categoria dei “transferred employees” le spese sostenute per l’acquisto di laptop/tablet e per i test d’ingresso sostenuti dai propri figli per frequentare in Italia gli istituti scolastici. Particolare attenzione, nella risposta all’interpello, ha assunto la rilevanza di detto rimborso alla formazione del reddito ai sensi dell’articolo 51, comma 2, lettera f-bis, del D.P.R 22 dicembre 1986, n. 917 (Testo Unico delle Imposte sui Redditi o “TUIR”).
L’art. 51, comma 1, del TUIR sancisce il c.d. principio di onnicomprensività, secondo il quale costituiscono reddito di lavoro dipendente “tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro”.
Pertanto, sia gli emolumenti in denaro che i valori corrispondenti ai beni, ai servizi ed alle opere offerti dal datore di lavoro ai propri dipendenti in generale, sono considerati redditi imponibili e, pertanto, utili ai fini della determinazione del reddito di lavoro dipendente.
Tuttavia, il medesimo articolo 51, ai commi successivi, individua le componenti reddituali che derogano al principio di onnicomprensività e non concorrono a formare la base imponibile del reddito da lavoro dipendente o ne concorrono in parte. Il comma 2 prevede che non concorrono, tra le altre, a formare il reddito di lavoro dipendente:
In virtù di quanto esposto e di quanto già chiarito dalla stessa autorità fiscale nella risoluzione del 27 maggio 2021, n. 37/E, viene precisato che la normativa conferma la possibilità per il datore di lavoro di erogare servizi di educazione ed istruzione, direttamente o tramite terzi, nonché di corrispondere ai dipendenti somme di denaro da destinare alle finalità indicate, anche a titolo di rimborso di spese già sostenute a favore dei familiari di cui all’articolo 12 del TUIR.
Affinché le somme e i valori in questione risultino, in tutto o in parte, detassati, è necessario che l’offerta sia rivolta alla “generalità dei dipendenti” o a “categorie di dipendenti”.
Con la formulazione “categorie di dipendenti” si vuol fare riferimento alla generica disponibilità di opere, servizi o somme verso un gruppo omogeneo di dipendenti, anche qualora alcuni di questi non ne fruiscano di fatto.
L’Agenzia, inoltre, ha tenuto a precisare che l’espressione “categorie di dipendenti” non è diretta a delineare meramente le categorie previste dal codice civile (dirigenti, operai, etc.). La formulazione vuole rifarsi a tutti i dipendenti di un “determinato gruppo”, come, ad esempio, tutti i dipendenti di un certo livello o di una certa qualifica, tutti i dipendenti trasferiti all’estero ovvero tutti gli operai del turno di notte.
È stato più volte precisato che la conditio sine qua non per l’esclusione di questi benefit dalla formazione del reddito è che gli stessi non debbano essere destinati al singolo lavoratore e/o riconosciuti ad personam (vedasi circolari 23 dicembre 1997, n. 326 e 15 giugno 2016, n. 28/E dell’Agenzia delle Entrate).
Con specifico riferimento alla fattispecie in esame, l’Agenzia delle Entrate ricorda:
Conclusioni In ragione di quanto esposto, secondo l’Agenzia delle Entrate non costituisce reddito di lavoro dipendente il rimborso da parte del datore di lavoro delle spese sostenute dai dipendenti che rientrano nella categoria dei “transferred employees“, per l’acquisto di laptot/tablet. E, sempre secondo l’Agenzia, non genera reddito di lavoro dipendente il rimborso dell’eventuale costo d’iscrizione sostenuto per l’effettuazione da parte dei figli del test d’ingresso vincolante per l’iscrizione ad istituti scolastici. Ciò in quanto detto rimborso può rientrare nelle spese sostenute per la frequenza scolastica dei figli.
L’INPS, con la circolare n. 62 del 25 maggio 2022, ha fornito chiarimenti circa le modifiche introdotte dalla Legge di Bilancio 2022 e le nuove disposizioni in materia di APE Sociale.
In particolare, la circolare (i) elenca le categorie di professioni rientranti nei lavori gravosi e i lavoratori che possono accedere al beneficio con il requisito contributivo ridotto a trentadue anni, (ii) illustra i nuovi modelli di domanda e i relativi moduli per le attestazioni dei datori di lavoro, (iii) descrive i regimi di compatibilità dell’APE Sociale con le varie forme di sostegno al reddito e (iv) fornisce chiarimenti sulla riconoscimento dell’APE Sociale in caso di cessazione per “mancato superamento del periodo di prova” e “cessazione dell’attività aziendale”.
L’APE Sociale è un sussidio economico introdotto dalla legge di bilancio 2017 ed erogato dall’INPS a soggetti meritevoli di una particolare tutela che abbiano compiuto almeno 63 anni di età, unitamente ad un preciso requisito contributivo, e non risultino già titolari di pensione diretta in Italia o all’estero. La corresponsione dell’indennità si protrae sino a quando il beneficiario non raggiunge l’età per accedere alla pensione di vecchiaia o a un trattamento pensionistico conseguito in anticipo.
Tra le novità più significative introdotte dalla Legge di Bilancio 2022, si evidenzia in primis la proroga della validità dell’APE Sociale fino al 31 dicembre 2022. Ciò garantisce a coloro che avevano perfezionato i requisiti negli anni precedenti e non hanno presentato la relativa domanda di verifica, nonché ai soggetti decaduti dal beneficio, di ripresentare la domanda. Inoltre, i lavoratori che si trovano in stato di disoccupazione potranno presentare domanda di accesso al beneficio senza dovere attendere, ove non ancora perfezionato, il decorso di almeno tre mesi dal momento in cui è terminata l’integrale fruizione della prestazione di disoccupazione spettante.
La Legge di Bilancio 2022 – oltre a rivedere ed integrare l’elenco delle professioni rientranti nella categoria dei lavori c.d. “gravosi” che possono presentare domanda di verifica di accesso all’APE Sociale – ha ridotto a 32 anni il requisito dell’anzianità contributiva per accedere ad esso per le seguenti categorie di lavoratori; (i) gli operai edili con contratto collettivo nazionale di lavoro per i dipendenti delle imprese edili e affini (ii) i ceramisti e (iii) i conduttori di impianti per la formatura di articoli in ceramica e terracotta
In linea con i chiarimenti della giurisprudenza secondo cui il recesso del datore di lavoro durante o all’esito del periodo di prova deve ritenersi equiparato ad un licenziamento individuale, viene chiarito che anche ai soggetti licenziati per “mancato superamento del periodo di prova” così come ai disoccupati a causa della cessazione dell’attività aziendale deve essere garantito l’accesso all’APE Sociale, stante gli altri requisiti di legge.
La Legge di Bilancio si è espressa circa l’incompatibilità di detto sussidio con i trattamenti pensionistici diretti, nonché con i trattamenti a sostegno del reddito connessi allo stato di disoccupazione involontaria e con l’indennizzo previsto per la cessazione dell’attività commerciale. Nulla viene disposto, invece, circa la sua compatibilità con altri istituti quali, a titolo esemplificativo e non esaustivo, il Reddito di Cittadinanza (RdC) ed il Reddito di Emergenza (Rem). Sul punto è intervenuto l’INPS con circolare in esame.
L’INPS, poiché il decreto-legge n. 4/2019 (istitutivo del RdC) non prevede alcuna forma di incompatibilità o incumulabilità (totale o parziale) con l’APE Sociale, conferma la sua compatibilità con la percezione dell’RdC, pur concorrendo il relativo importo alla formazione del valore ISEE assunto come base per la concessione dell’RdC stesso e per la sua determinazione.
Diversamente l’INPS si esprime sul Rem che non può essere riconosciuto al titolare di APE sociale in quanto la sua percezione fa venir meno il presupposto del medesimo, ossia la situazione di difficoltà economica e la necessità di mezzi di sostentamento per sé e per il proprio nucleo familiare.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9800 del 25 marzo 2022, si è espressa in merito al regime sanzionatorio applicabile in caso di omessa o incompleta comunicazione dei criteri di scelta nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo.
In particolare, la vicenda ha visto la Corte d’appello di Reggio Calabria, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarare illegittimo il licenziamento collettivo intimato da un datore di lavoro, determinando come risolto il rapporto di lavoro intercorso con i lavoratori. Il datore di lavoro, a seguito dei fatti, veniva condannato al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto in favore dei lavoratori coinvolti.
Difatti, la corte territoriale ha ritenuto che il licenziamento intimato ex legge n. 223/1991 risultasse affetto da una “mera violazione di carattere formale”, consistente nella mancata indicazione dei concreti punteggi attribuiti a ciascuno e dei dati fattuali relativi ai carichi di famiglia nella comunicazione di cui all’art. 4, comma 9, legge n. 223/1991 diretta ai lavoratori, con riferimento all’indicazione dei tre criteri di scelta, dei punteggi astratti previsti in relazione a ciascun criterio e dei dati relativi all’anzianità di servizio di ciascun lavoratore.
I lavoratori coinvolti, considerata la sentenza di secondo grado, presentavano ricorso in Cassazione attraverso una serie di motivi. In particolare, i lavoratori ravvisavano che la corte territoriale avesse valutato erroneamente le carenze della comunicazione finale a loro indirizzata, ex art. 4, comma 9, integrando “non una mera irregolarità formale bensì la violazione dei criteri di scelta, mancando la puntuale indicazione delle modalità di applicazione dei criteri idonea a consentire la valutazione comparativa delle posizioni dei dipendenti e, pertanto, la verifica della corretta applicazione dei suddetti criteri”.
Nell’accogliere tale motivo di ricorso, la Corte di Cassazione osservava come fosse stato più volte affermato che la disciplina della legge n. 223/1991 in materia di licenziamenti collettivi per riduzione di personale rappresenti una “garanzia, di natura essenzialmente procedimentale, destinata ad operare su un duplice piano di tutela – delle prerogative sindacali e delle garanzie individuali – assolvendo alla funzione di porre le associazioni sindacali in condizioni di contrattare i criteri di scelta dei lavoratori da sospendere ma altresì di assicurare al lavoratore, potenzialmente interessato al licenziamento, la previa individuazione dei criteri di scelta e la verificabilità dell’esercizio del potere privato del datore di lavoro” (Cass. n. 19618 del 2011; Cass. n. 15694 del 2009).
In particolare, la comunicazione in argomento ha la funzione di indicare “puntualmente” le modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare e, coerentemente, risulta finalizzata a consentire ai lavoratori coinvolti, alle organizzazioni sindacali e agli organi amministrativi di controllare la correttezza dell’operazione e la rispondenza agli accordi raggiunti.
La Suprema Corte osserva, infatti, come tale comunicazione “cristallizzi” le ragioni del recesso, non consentendo al datore di lavoro di dedurre in giudizio, successivamente, l’applicazione di modalità della scelta diverse da quelle risultanti dalla stessa.
A tale fine, quindi, l’esigenza di consentire il controllo – sia contestuale che successivo – impone che non solo i criteri, ma anche i presupposti fattuali sulla base dei quali gli stessi sono stati applicati, risultino ricavabili dalla comunicazione.
Nel caso di specie, i giudici della Cassazione hanno ritenuto che la generica indicazione dei criteri dei lavoratori da licenziare abbia “impedito ogni verifica di coerenza tra i detti criteri e la concreta applicazione degli stessi, non offrendo alcun parametro comparativo, rispetto alla posizione di altri lavoratori, idoneo ad escludere la sussistenza di ingiustificati trattamenti più favorevoli, come, invece, sostenuto dalla società”.
Sotto il profilo sanzionatorio, l’orientamento della Corte ha sempre distinto il “caso di violazione delle procedure richiamate all’art. 4, comma 12”, per il quale opera la tutela meramente indennitaria, dal “caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1”, per il quale si applica la tutela reintegratoria. Tanto premesso, mentre la non corrispondenza della comunicazione al modello della legge n. 223/1991 costituisce una mera violazione delle procedure, il diverso caso di “violazione dei criteri di scelta” si ha quando questi siano, ad esempio, illegittimi perché in violazione di legge o illegittimamente applicati, o ancora perché attuati in difformità dalle previsioni legali o collettive.
Nel caso di specie, la lacunosità della comunicazione inviata ai lavoratori si è, dunque, tradotta in un’illegittima applicazione dei criteri di scelta, in assenza di un livello di adeguatezza idoneo a mettere in grado il singolo lavoratore di comprendere per quale ragione lui, e non altri colleghi, fosse stato licenziato e quindi di poter contestare il recesso datoriale.
La Corte di Cassazione disponeva dunque l’annullamento del licenziamento, con condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro dei lavoratori e al pagamento di un’indennità risarcitoria in misura non superiore alle dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Nel mese di giugno deve essere corrisposto il premio di produzione relativo all’anno 2021, verificate le condizioni per la corresponsione previste dal CCNL.
A decorrere dal mese di giugno 2022, la quota di contribuzione alla previdenza complementare prevista dal CCNL (Fondo Astri) è incrementata di un ulteriore 0,5%.
Nel mese di giugno deve essere erogato l‘elemento di garanzia retributiva (E.G.R.) di ammontare pari ad Euro 240. L’importo dell’E.G.R. – da intendersi omnicomprensivo di ogni incidenza su tutti gli istituti legali e contrattuali, compreso il TFR – è corrisposto interamente ai lavoratori in forza dal 1° gennaio al 31 dicembre di ogni anno precedente l’erogazione e proporzionalmente ridotto in dodicesimi per gli altri lavoratori, considerando come mese intero la frazione di mese superiore a 15 giorni. È riproporzionato per i lavoratori a tempo parziale in base al minor orario contrattuale.
Con le competenze del mese di giugno 2022 è riconosciuto un importo annuo di 170 Euro lordi ai dipendenti a tempo indeterminato delle aziende prive di riconoscimenti economici derivanti da contrattazione di secondo livello, a livello di gruppo aziendale o di unità produttiva. Resta inteso che i beneficiari nel corso del 2021 non devono aver percepito altri trattamenti economici collettivi, comunque, soggetti a contribuzione oltre a quanto spettante dal CCNL.
Con le competenze del mese di giugno 2022 ai lavoratori a tempo indeterminato:
è riconosciuta con le competenze del mese di giugno dell’anno successivo un importo di Euro 100,00 lordi, ovvero una cifra inferiore fino a concorrenza in caso di presenza di un trattamento aggiuntivo a quello fissato dal CCNL.
L’elemento di garanzia retributiva di 190 Euro lordi annui deve essere erogato in unica soluzione con le competenze del mese di giugno ed è corrisposto pro-quota con riferimento a tanti dodicesimi quanti sono stati i mesi di servizio prestati dal lavoratore, anche in modo non consecutivo, nell’anno precedente.
Nel mese di giugno deve essere corrisposto ai lavoratori l’elemento distinto della retribuzione (“E.D.R.”) pari all’8% della retribuzione tabellare annua vigente, a condizione che si sia già proceduto alla ridefinizione dei trattamenti integrativi aziendali in essere al 1° gennaio 2019.
L’E.D.R. viene erogato su base annua, matura da gennaio a dicembre di ogni anno e spetta in proporzione alla durata ed alla tipologia di rapporto di lavoro in essere.
Con le competenze del mese di giugno i datori di lavoro devono erogare il premio annuale ai dipendenti in forza al 1° gennaio 2022, nella misura determinata dal CCNL, parametrato per ciascun livello.
Ai lavoratori in forza al 1° gennaio di ogni anno – nelle aziende prive di contrattazione di secondo livello riguardante il premio di risultato o altri istituti retributivi comunque soggetti a contribuzione e che nel corso dell’anno precedente abbiano percepito un trattamento retributivo composto esclusivamente da importi retributivi fissati dal CCNL – è corrisposta a titolo perequativo, con la retribuzione del mese di giugno, una cifra annua pari a Euro 485, onnicomprensiva e non incidente sul TFR, ovvero una cifra inferiore fino a concorrenza in caso di presenza di retribuzioni aggiuntive a quelle fissate dal CCNL, in funzione della durata, anche non consecutiva, del rapporto di lavoro nel corso dell’anno precedente.
A decorrere dal 1° giugno 2022, inoltre, con riferimento ai lavoratori di nuova adesione al fondo Cometa e con età inferiore ai 35 anni compiuti, la contribuzione a carico del datore di lavoro è pari al 2,2% dei minimi contrattuali.
Le imprese prive di contrattazione aziendale dovranno corrispondere ai dipendenti in forza al 1° gennaio di ogni anno un importo pari ad euro 485,00 unitamente alla retribuzione del mese di giugno. Tale importo sarà proporzionalmente ridotto in caso di contratto part-time ed in base ai mesi di anzianità di ogni lavoratore nell’anno precedente. I dipendenti che abbiano comunque percepito a qualsiasi titolo importi aggiuntivi rispetto ai minimi contrattuali riceveranno la somma suddetta fino a concorrenza.
Inoltre, al 1° giugno di ogni anno, i datori di lavoro sono tenuti a mettere a disposizione dei lavoratori che abbiano superato il periodo di prova strumenti di welfare per un importo annuo pari ad Euro 200,00 da utilizzare entro il 31 maggio dell’anno successivo. Tale importo verrà proporzionalmente ridotto in caso di contratto part-time ed in base ai mesi di anzianità di ogni lavoratore nel periodo intercorrente dal 1° giugno dell’anno precedente al 31 maggio dell’anno in corso.
I lavoratori avranno la possibilità di destinare l’importo suddetto al Fondo di Previdenza Complementare Intersettoriale.
A decorrere dal mese di giugno 2022, il contributo paritetico a carico di azienda e lavoratori pari all’1,5% viene elevato di 0,30 punti percentuali.
A far data dal 1° giugno 2022 è eliminata la prima categoria professionale. I lavoratori in forza al 31 maggio 2022 inquadrati in prima categoria saranno riclassificati alla seconda categoria dal 1° giugno 2022, inclusi gli apprendisti.
I lavoratori coinvolti conservano, a tutti gli effetti di legge e contratto, l’anzianità di servizio maturata nel precedente livello. Il passaggio al secondo livello non comporta necessariamente un mutamento delle mansioni di provenienza.
Con la retribuzione del mese di giugno 2022, inoltre, i datori di lavoro sono tenuti a corrispondere una cifra lorda pari ad Euro 250,00, onnicomprensiva e non incidente sul TFR ovvero una cifra inferiore fino a concorrenza in caso di presenza di retribuzioni aggiuntive a quelle fissate dal CCNL, in funzione della durata, anche non consecutiva, del rapporto di lavoro nel corso dell’anno precedente. La frazione di mese superiore a 15 giorni sarà considerata, a questi effetti, come mese intero.
La disposizione trova applicazione nelle aziende prive di contrattazione di secondo livello riguardante il premio di risultato o altri istituti retributivi, comunque, soggetti a contribuzione e che nel corso dell’anno precedente (1 gennaio – 31 dicembre) abbiano percepito un trattamento retributivo composto esclusivamente da importi retributivi fissati dal CCNL (lavoratori privi di superminimi collettivi o individuali, premi annui o altri importi retributivi comunque soggetti a contribuzione).
Infine, entro il mese di giugno 2022, le aziende dovranno mettere a disposizione dei lavoratori strumenti di welfare, elencati in via esemplificativa in calce al presente articolo, del valore di 200,00 Euro da utilizzare entro il 31 maggio 2023.
Le imprese che non hanno definito accordi per la contrattazione di secondo livello con le OO. SS. firmatarie del CCNL e, fatti salvi accordi di miglior favore, corrispondono ai lavoratori in servizio al 1° gennaio di ogni anno, quale il premio di risultato o altri istituti retributivi comunque soggetti a contribuzione, con la retribuzione del mese di giugno una mensilità aggiuntiva pari a:
A decorrere dal 1° giugno 2022 è previsto un aumento dei minimi retributivi tabellari dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:
Nel mese di giugno 2022 è prevista l’erogazione di importi a titolo di “una tantum” ai sensi dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:
L’Ispettorato Nazionale del Lavoro (l’”INL”), con la nota n. 856 del 19 aprile 2022, ha diramato un vademecum attinente all’ambito di applicazione della “maxi-sanzione” per lavoro sommerso, regolata dall’articolo 3 del Decreto-legge n. 12/2002, convertito con modificazioni dalla Legge n. 73/2002. Con tale fattispecie si intende l’impiego, da parte di un datore di lavoro, di personale in assenza delle necessarie comunicazioni obbligatorie agli enti, nonché di qualsivoglia assicurazione previdenziale, assistenziale e anti-infortunistica.
L’INL, nella propria nota, evidenzia come il regime sanzionatorio applicabile al datore di lavoro, in virtù delle ultime revisioni normative, è stato graduato per fasce in base alla durata del comportamento illecito, inteso come impiego di lavoro sommerso o “nero”. La sanzione così determinata è stata aumentata del 20% ai sensi dell’art. 1, comma 445 lett. d), della Legge n. 145/2018. Attualmente la sanzione è, quindi, determinata come di seguito:
Inoltre, in forza dell’art. 3, comma 3-quater, le sanzioni sono aumentate di un ulteriore 20% in caso di impiego di:
Per completezza si segnala che la Legge di bilancio 2019 ha previsto, oltre alla maggiorazione del 20% degli importi dovuti a titolo di sanzione, il raddoppio di tali percentuali laddove il datore di lavoro, nei tre anni precedenti, sia stato destinatario di sanzioni amministrative o penali per i medesimi illeciti (c.d. recidiva).
L’INL continua, nel proprio vademecum, illustrando come il D.Lgs. n. 151/2015 abbia reintrodotto la “diffidabilità” della maxi-sanzione al fine di “promuovere la regolarizzazione dei rapporti sommersi”.
In merito, nella nota vengono delineate tre distinte ipotesi:
La nota illustra, altresì, che la “maxi-sanzione” non si applica tutte le volte in cui “dagli adempimenti di carattere contributivo precedentemente assolti, si evidenzi la volontà del datore di lavoro di non occultare il rapporto di lavoro, anche laddove si tratti di una differente qualificazione dello stesso”.
Conseguentemente, il personale ispettivo non adotterà la “maxi-sanzione” nei casi di:
Per “intervenuta regolarizzazione” l’INL intende i casi in cui: