Mobbing: è ritenuto responsabile il datore di lavoro che non rimuova il fatto lesivo (Andrea Di Nino, Sintesi – Ordine dei Consulenti del Lavoro, gennaio 2022)

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 35061 del 17 novembre 2021, si è espressa in merito alla responsabilità del datore di lavoro in caso di mobbing messo in atto da parte di un dipendente dello stesso nei confronti di un collega.

In particolare, i fatti di causa hanno visto la Corte d’Appello di Roma riformare la sentenza del Tribunale della stessa sede e accogliere la domanda proposta da una dipendente del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale addetta all’Istituto Italiano di cultura di Chicago, mirante all’ottenimento del risarcimento del danno da mobbing nei confronti del datore di lavoro nonché della direttrice dell’Istituto stesso.

In particolare, la Corte territoriale non condivideva la valutazione del primo giudizio, secondo il quale la prova della condotta mobbizzante non sarebbe emersa dalle deposizioni testimoniali.

Degli episodi di mobbing subiti dalla dipendente ricorrente vi è stata testimonianza diretta, secondo la quale la direttrice usava chiedere alla dipendente “continue correzioni dei testi da lei redatti e la obbligava a lunghe attese dietro la porta del proprio ufficio; spesso le imponeva compiti richiedenti molte ore di straordinario; criticava il suo operato con espressioni quali «disgraziata», «idiota» e di fronte ai colleghi di lavoro diceva che il lavoro della [dipendente] «faceva schifo»; le assegnava il compito, meramente esecutivo, di provvedere alla apertura dell’ufficio e di sostituire le colleghe assenti anche per espletare compiti dequalificanti; presentava all’esterno la [dipendente] coma «assistant» e non con la qualifica superiore rivestita («consular agent»)”.

Tali circostanze erano state confermate da ulteriori testimonianze, che avevano aggiunto che la direttrice negava alla dipendente i congedi richiesti, sebbene questa avesse accumulato molte ore di lavoro straordinario, e usava assegnare agli stagisti compiti di competenza della dipendente medesima, adibendola spesso a compiti di centralinista.

La Suprema Corte osserva come quelle descritte si trattino di “un complesso di condotte reiterate e palesemente volte a sminuire e declassare la personalità della [dipendente], sia all’esterno che all’interno del contesto lavorativo, tanto da renderlo per quest’ultima intollerabile e provocarne, come avvenuto, l’allontanamento”.

Sulla base di tali circostanze, la Corte di Appello aveva ritenuto che il Ministero, datore di lavoro, era responsabile per il mobbing attuato nei confronti della dipendente e che tale responsabilità sussisteva anche a carico della direttrice dell’Istituto presso cui la lavoratrice era addetta, poiché autrice materiale delle condotte.

A riprova di quanto avanzato dalla Corte territoriale, il CTU aveva accertato che la condotta del datore di lavoro aveva cagionato alla lavoratrice un danno biologico, consistente in “disturbo dell’adattamento, in soggetto con disturbo dipendente di personalità con tratti evitanti”, produttivo di una invalidità permanente del 4% e di una invalidità temporanea parziale al 25% per 60 giorni.

Nella fattispecie di causa, il giudice dell’appello ha positivamente verificato la violazione non solo di obblighi contrattuali ma anche di diritti personali della lavoratrice di rilievo costituzionale, quali il diritto alla dignità sul luogo di lavoro (articolo 2 Cost.) ed il diritto alla salute (articolo 32 Cost.); è stata inoltre accertata l’intenzionalità della condotta, necessaria anche alla configurazione della fattispecie del mobbing, da parte della direttrice dell’Istituto.

In particolare, in sede di secondo grado di giudizio è stata verificata la sussistenza di un complesso di condotte reiterate “palesemente volte a sminuire e declassare la personalità” della dipendente, “sia all’esterno che all’interno del contesto lavorativo, tanto da renderlo, per quest’ultima, intollerabile e provocarne l’allontanamento”.

Nel ricorrere contro la sentenza di secondo grado, la direttrice assume che il giudice dell’appello abbia “violato i principi giurisprudenziali in tema di mobbing, limitandosi ad elencare una serie di comportamenti commessi ai danni della [dipendente] senza accertare il profilo soggettivo dell’illecito ovvero che essi fossero accompagnati dalla volontà di emarginare, vessare o comunque nuocere alla lavoratrice”.

Tuttavia, per la Suprema Corte tale motivo di ricorso risulta inammissibile. Esso, infatti, ignora il positivo accertamento, contenuto nella sentenza impugnata, del carattere intenzionale della condotta della direttrice stessa, diretta a “sminuire e declassare” la personalità della dipendente sottoposta e a “rendere per lei intollerabile il contesto lavorativo”.

Altresì, nel proprio ricorso la direttrice deduceva che nella fattispecie di causa non risultava provato il nesso eziologico tra la condotta ed il danno biologico. In particolare, veniva esposto che il CTU aveva evidenziato che la personalità della dipendente era caratterizzata da un disturbo di base di tipo “dipendente” con tratti “evitanti”, che aveva contribuito a “renderla strutturalmente fragile e più vulnerabile ad eventi stressanti e nelle conclusioni aveva attribuito alla vicenda lavorativa carattere di concausa, unitamente alle caratteristiche di personalità”.

Anche tale motivo veniva però ritenuto infondato. Per consolidata giurisprudenza, infatti, “in caso di concorso tra causalità umana e concausa naturale il responsabile dell’illecito risponde per l’intero”. In merito, viene evidenziato invero che “una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli”.

Sul punto, la Suprema Corte evidenzia che, nell’ipotesi in cui la persona danneggiata sia, per la propria condizione soggettiva, più vulnerabile di altri soggetti della stessa età e sesso, “tale circostanza non incide né sul nesso di causa, né sull’attribuzione della colpa e nemmeno sulla liquidazione del danno”.

Tanto premesso, viene ritenuto che il rapporto eziologico tra il comportamento di mobbing e la lesione del diritto alla salute sia verificato anche quando la condotta costituisca solo una concausa ed abbia operato su di un substrato psicologico preesistente, anche ai sensi dell’art. 41 cod.pen., il quale determina che “il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute […] non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento”.

Infine, anche il ricorso incidentale promosso dal datore di lavoro viene respinto. Infatti, la Corte di Cassazione evidenzia come la giurisprudenza abbiamo più volte acclarato come una serie di comportamenti di carattere persecutorio e con intento vessatorio integranti il mobbing possano pervenire direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi.  Nella fattispecie, “la circostanza che la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima non vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro ove questi sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo”.

Fonte: Sintesi

Congedo parentale COVID-19: le istruzioni operative dell’INPS

Con la circolare n. 189/2021 l’INPS ha fornito le istruzioni operative sul nuovo “Congedo parentale SARS CoV-2” previsto dall’articolo 9, D.L. 146/2021, del quale possono usufruire i genitori lavoratori dipendenti del settore privato, i genitori lavoratori iscritti in via esclusiva alla Gestione separata e i genitori lavoratori autonomi iscritti all’INPS.

Il congedo in gestione può essere fruito da uno solo dei genitori oppure da entrambi, ma non negli stessi giorni, per:

  • i periodi di infezione da SARS CoV-2;
  • il periodo di quarantena da contatto, ovunque avvenuto, ovvero
  • il periodo di sospensione dell’attività didattica o educativa

in presenza del figlio convivente minore di anni 14.

Per i periodi di astensione fruiti è riconosciuta un’indennità pari al 50% della retribuzione o del reddito, a seconda della categoria lavorativa di appartenenza del genitore richiedente, i quali sono coperti da contribuzione figurativa. Sono indennizzabili solamente le giornate lavorative ricadenti all’interno del periodo di congedo richiesto.

I genitori di figli di età compresa tra i 14 e i 16 anni possono, invece, astenersi dal lavoro senza corresponsione di retribuzione o indennità, né riconoscimento di contribuzione figurativa, con divieto di licenziamento e diritto alla conservazione del posto di lavoro. Pertanto, le relative domande devono essere presentate ai soli datori di lavoro e non all’INPS.

Il congedo può essere fruito anche dai genitori lavoratori affidatari o collocatari. La circolare riepiloga, altresì, le situazioni di compatibilità/incompatibilità tra il congedo in esame e altri istituti, fornendo istruzioni per la corretta gestione dell’evento nel flusso UniEmens.

Fruizione del congedo

Il congedo può essere fruito sia in forma giornaliera sia in forma oraria e per poterne usufruire devono sussistere tutti i seguenti requisiti:

  • il genitore deve avere un rapporto di lavoro dipendente in essere. Perciò, in caso di intervenuta cessazione o sospensione del rapporto di lavoro durante la sua fruizione, viene meno il relativo diritto e le giornate successive alla cessazione o sospensione non possono essere indennizzate. Questo comporta che il genitore deve tempestivamente informare l’INPS dell’avvenuta modifica del rapporto lavorativo;
  • il figlio per il quale si fruisce del congedo deve essere minore di anni 14. Pertanto, al compimento del 14° anno di età, il congedo in questione non potrà essere più fruito;
  • il genitore e il figlio per il quale si fruisce del congedo devono essere conviventi durante tutto il periodo di fruizione del congedo stesso. La convivenza si ritiene sussistere quando il figlio ha la residenza anagrafica nella stessa abitazione del genitore richiedente. Qualora il genitore e il figlio risultino all’anagrafe residenti in due abitazioni diverse, il congedo non può essere fruito, non rilevando le situazioni di fatto. Nel caso di affidamento o di collocamento del minore, la convivenza è desunta dal provvedimento di affidamento o di collocamento al lavoratore richiedente il congedo;
  • deve sussistere una delle seguenti condizioni in relazione al figlio per il quale si fruisce del congedo:
    • l’infezione da SARS CoV-2, risultante da certificazione/attestazione del medico di base o del pediatra di libera scelta oppure da provvedimento/comunicazione dell’Asl territorialmente competente. Tutte le già menzionate documentazioni devono indicare il nominativo del figlio e la durata delle prescrizioni in esse contenute;
    • la quarantena da contatto del figlio (ovunque avvenuto) disposta con provvedimento/comunicazione del Dipartimento di prevenzione dell’Asl territorialmente competente;
    • la sospensione dell’attività didattica o educativa in presenza disposta con provvedimento adottato a livello nazionale, locale o dalle singole Strutture scolastiche, contenente la durata della sospensione.

In caso di figli con disabilità in situazione di gravità ai sensi dell’articolo 3, comma 3, L. 104/1992, e iscritti a scuole di ogni ordine e grado o ospitato in centri diurni a carattere assistenziale, il congedo può essere fruito anche oltre il limite dei 14 anni di età e indipendentemente dalla convivenza con il genitore che fruisce del congedo, restando, invece, fermi gli altri requisiti sopra citati.

La conversione dei periodi di congedo parentale

Gli eventuali periodi di congedo parentale o di prolungamento di congedo parentale fruiti dall’inizio dell’anno scolastico 2021/2022 fino al 21 ottobre 2021 possono essere convertiti, a domanda, nel “Congedo parentale SARS CoV-2” e non sono computati e indennizzati a titolo di congedo parentale.

Possono essere convertiti, a domanda degli interessati, anche i periodi di congedo parentale o di prolungamento di congedo parentale fruiti dal 22 ottobre 2021 e fino al rilascio della specifica procedura di domanda telematica del nuovo “Congedo parentale SARS CoV-2”.

A tal fine, il genitore lavoratore dipendente potrà presentare la nuova domanda senza dover inviare formale comunicazione di annullamento della domanda di congedo parentale o di suo prolungamento precedentemente presentata.

In questo caso, i lavoratori dipendenti con pagamento dell’indennità anticipato dal datore di lavoro devono comunicare tempestivamente al proprio datore di lavoro la presentazione all’INPS tale domanda. Ciò, al fine della corretta corresponsione dell’indennità dello specifico congedo pari al 50% della retribuzione in luogo dell’indennità del congedo parentale pari al 30% della retribuzione, nonché per permettere al datore stesso la rettifica dei flussi UniEmens.

INPS: riduzione delle sanzioni civili in caso di massimale contributivo errato

L’INPS, con il messaggio n. 4412 del 10 dicembre 2021, ha chiarito le modalità di regolarizzazione attuabili dai datori di lavoro in caso di errata applicazione del massimale contributivo di cui all’art. 2 della legge n. 335/1995, rettificando in parte quanto originariamente indicato nel suo messaggio n. 5062/2020.

Normativa di riferimento

Come noto, ai sensi dell’art. 2, comma 18, della Legge 8 agosto 1995, n. 335, il massimale contributivo costituisce il limite – annualmente rivalutato – oltre il quale la retribuzione corrisposta a ciascun lavoratore non è soggetta al prelievo di contributi previdenziali utili alla pensione.

Tale disposizione si applica, oltre che ai lavoratori iscritti alla Gestione Separata, ai lavoratori iscritti al Fondo Pensioni Lavoratori Dipendenti (c.d. FPLD) privi di anzianità contributiva in periodi pregressi al 1° gennaio 1996, nonché a coloro che, pur avendo un’anzianità contributiva ante 1° gennaio 1996, abbiano presentato domanda irrevocabile di opzione al sistema contributivo.

Nel complesso di accrediti da considerare sono inclusi anche i periodi di contribuzione figurativa e contribuzione facoltativa, i riscatti (es. riscatto di laurea), i trasferimenti gratuiti ed onerosi, nonché la contribuzione volontaria.

Qualora il lavoratore non abbia la predetta anzianità lavorativa e/o non abbia esercitato il diritto di opzione al sistema contributivo, il datore di lavoro avrà l’onere di versare sulla retribuzione eccedente il massimale annuo unicamente i c.d. contributi minori, valorizzando il campo <eccedenza massimale> in ciascun flusso Uniemens mensile.

Per la corretta verifica dell’applicabilità o meno del massimale contributivo, con propria circolare n. 177/1996, l’INPS ha previsto che i datori di lavoro debbano raccogliere una dichiarazione del lavoratore attestante l’esistenza o meno di periodi utili ai fini dell’anzianità contributiva precedente al 1° gennaio 1996.

Altresì, con circolare n. 42/2009, l’INPS ha disciplinato la particolare ipotesi in cui l’anzianità contributiva antecedente al 1° gennaio 1996 venga acquista su richiesta del lavoratore ovverosia in caso di riscatto o accredito figurativo. In essa viene precisato che l’esclusione dall’applicazione del massimale (e quindi il versamento dei contributi sull’intero montante contributivo) decorre a partire dal mese successivo a quello di presentazione della domanda di riscatto o della domanda di accredito figurativo

Regime sanzionatorio per errata applicazione del massimale contributivo

Con messaggio 5062/2020 l’INPS ha avviato un’attività di verifica utilizzando le denunce contributive Uniemens in cui vi è la valorizzazione del campo <eccedenza massimale>. Da essa è emersa la presenza di lavoratori il cui estratto conto previdenziale evidenzia la presenza del versamento di contributi in data anteriore al 1° gennaio 1996 (con assenza di opzione per il sistema contributivo). L’Istituto ha così predisposto un’azione di recupero dei contributi dovuti e non versati, trasmettendo, a mezzo PEC, a ciascun datore di lavoro una diffida ad adempiere.

L’INPS ha poi previsto che il regime sanzionatorio da applicare sia quello dell’omissione contributiva ex art. 116, comma 8, lettera a) della L. 388/2000 in quanto, a suo dire, non risulta in tal caso ravvisabile l’intento del datore di lavoro di occultare le retribuzioni erogate e, pertanto, non si configura l’ipotesi di evasione contributiva.

Con il messaggio in esame, invece, l’INPS modifica il sistema sanzionatorio introducendone uno differente, applicabile in caso di errata applicazione del massimale contributivo per i lavoratori con anzianità contributiva antecedente il 1° gennaio 1996 conseguente alla presentazione di una domanda di riscatto o di accredito figurativo.

Con riguardo a tale fattispecie, l’INPS ritiene applicabile la previsione di cui alla lettera a), prima parte, del comma 15, dell’art. 116 della legge n. 388/2000, che consente – fermo l’integrale pagamento dei contributi dovuti – la riduzione delle sanzioni civili fino alla misura degli interessi legali. Ciò in quanto il mancato versamento dei contributi oltre il massimale potrebbe derivare da un comportamento omissivo del lavoratore nel non dichiarare la modifica del sistema contributivo ad esso applicabile e causato dalla scelta di accredito figurativo o riscatto.

Alla luce di quanto sopra esposto, i datori di lavoro – in caso di errata applicazione del massimale contributivo per i lavoratori con anzianità contributiva anteriore al 1° gennaio 1996 conseguente alla presentazione di una domanda di riscatto o di accredito figurativo – si avvantaggeranno di una riduzione delle sanzioni civili fino alla misura degli interessi legali e non dovranno versare le sanzioni per omissione contributiva previste per le altre casistiche. Tale riduzione dovrà decorrere dal mese successivo a quello di presentazione della domanda di riscatto o di accredito figurativo di periodi contributivi antecedenti al 1° gennaio 1996.

Agenzia delle Entrate: condizioni per l’esenzione delle spese sostenute dal dipendente per lo svolgimento dell’attività lavorativa da remoto

Con la risposta all’interpello n. 798 del 3 dicembre 2021, l’Agenzia delle Entrate ha esaminato il caso prospettato da un datore di lavoro intenzionato a rimborsare ai propri dipendenti i costi sostenuti per l’espletamento dell’attività lavorativa da remoto.

I fatti oggetto di interpello

Il datore di lavoro istante è una scuola che, allo scopo di facilitare una transizione digitale delle proprie attività di docenza, intende rimborsare al proprio personale scolastico le spese funzionali allo svolgimento della didattica opportunamente documentate e anticipate.

Tali spese attengono a dotazioni “IT”, carta, toner e connessione internet ed il loro rimborso sarà subordinato a specifica domanda parte degli aventi diritto nonché non potrà superare la misura massima di Euro 520,00 per ciascun richiedente.

Nella risposta ad interpello viene illustrato come “al fine della determinazione del rimborso massimo da erogare ai propri dipendenti, l’istante ha elaborato dei criteri oggettivi ed analitici che permettono di determinare per ciascuna tipologia di spesa la quota di costi risparmiati dal datore di lavoro e sostenuti dal lavoratore”.

Tale metodo di determinazione del costo è fondato, in parte, su dati statistici derivanti da ricerche di mercato (ad esempio, la quantificazione della vita media utile dei dispositivi IT e la quantificazione dei costi medi per il consumo della carta e per la connessione alla rete) e, in altra parte, sulla rilevazione dei dati concernenti le ore impiegate dal personale nella didattica a distanza.

Il principio di onnicomprensività del reddito di lavoro dipendente

Con specifico riferimento al trattamento fiscale da riservare ai rimborsi così quantificati, l’Agenzia delle Entrate opera una ricognizione della normativa di settore, di cui all’art. 51 del Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (il “TUIR”).

Tale previsione normativa dispone che costituiscono reddito di lavoro dipendente “tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro. Si considerano percepiti nel periodo d’imposta anche le somme e i valori in genere, corrisposti dai datori di lavoro entro il giorno 12 del mese di gennaio del periodo d’imposta successivo a quello cui si riferiscono”.

Con la predetta disposizione viene, in sostanza, sancito il c.d. “principio di onnicomprensività” del reddito di lavoro dipendente, in base al quale “sia gli emolumenti in denaro sia i valori corrispondenti beni, servizi ed opere offerti dal datore di lavoro ai propri dipendenti, costituiscono redditi imponibili e, in quanto tali, concorrono alla determinazione del reddito di lavoro dipendente”.

Ne discende – come osservato dall’Agenzia delle Entrate – che “tutte le somme che il datore di lavoro corrisponde al lavoratore, anche a titolo di rimborso spese, costituiscono per quest’ultimo reddito di lavoro dipendente”.

L’Agenzia ricorda che, in relazione alla rilevanza reddituale dei rimborsi spese erogati dai datori di lavoro, possono essere esclusi da imposizione i rimborsi riguardanti spese diverse da quelle sostenute per produrre il reddito di competenza del datore di lavoro, quando anticipate dal dipendente (ad esempio, per l’acquisto di beni strumentali disodico valore, quali la carta per la fotocopiatrice o la stampante, le pile della calcolatrice).

Tale orientamento è illustrato da consolidata prassi dell’autorità fiscale, in particolare nelle risoluzioni 9 settembre 2003, n. 178/E e 7 dicembre 2007, n. 357/E.

Le modalità di quantificazione del rimborso spese

Ai sensi della prassi dell’istituto, le spese sostenute dal lavoratore e rimborsate dal datore in modo forfetario sono escluse dalla base imponibile ove il legislatore abbia previsto un criterio volto a determinarne la quota che, dovendosi ritenere riferibile all’uso nell’interesse del datore di lavoro, può essere esclusa dall’imposizione.

Circa la modalità di determinazione dell’ammontare della spesa rimborsata, nella risoluzione 20 giugno 2017, n. 74/E, l’Agenzia delle Entrate ha affermato che “qualora il legislatore non abbia provveduto ad indicare un criterio ai fini della determinazione della quota esclusa da imposizione, i costi sostenuti dal dipendente nell’esclusivo interesse delatore di lavoro, devono essere individuati sulla base di elementi oggettivi, documentalmente accertabili, al fine di evitare che il relativo rimborso concorra alla determinazione del reddito di lavoro dipendente”.

Nel caso oggetto di interpello, è emerso come il rimborso riconosciuto dalla scuola ai dipendenti per l’utilizzo dei dispositivi IT sia basato su parametri “oggettivi diretti a determinare i costi risparmiati dall’ente che, invece, sono stati sostenuti dal dipendente nell’espletamento della propria attività lavorativa”.

Pertanto, in ragione della modalità di determinazione analitica delle somme, l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto che le somme erogate dalla scuola al fine rimborsare i dipendenti dei costi sostenuti nell’interesse del datore di lavoro non siano imponibili ai fini IRPEF.

INPS: nuove funzionalità dell’app “Greenpass50+”

Con il messaggio n. 4529 del 18 dicembre 2021, l’INPS ha reso noto la nuova funzionalità dell’app Greenpass50+.

Sul punto è opportuno richiamare il precedente messaggio n. 3589 del 21 ottobre 2021, con il quale l’Istituto ha comunicato l’operatività del servizio “Greenpass50+” per i datori di lavoro con più di 50 dipendenti, sia privati che pubblici e non aderenti a NoiPA, per la verifica del possesso del green-pass da parte dei propri dipendenti.

Per completezza si segnala che il Garante per la protezione dei dati personali, con un comunicato stampa del 14 dicembre 2021, aveva espresso parere favorevole sullo schema del DPCM che poi è stato approvato.

Le istruzioni operative fornite dall’INPS

L’INPS – con il messaggio in commento e in ottemperanza al DPCM 17 dicembre 2021 con riferimento alla verifica del rispetto dell’obbligo vaccinale per alcune categorie di lavoratori, quali personale scolastico, forze dell’ordine e personale delle strutture sanitarie e socio-sanitarie – ha introdotto, per il datore di lavoro nel servizio “GreenPass50 la possibilità di scegliere differenti tipologie di accreditamento, ossia:

  • per la verifica del possesso del green-pass ai sensi del DPCM del 12 ottobre 2021 o
  • per la verifica del rispetto dell’obbligo vaccinale ai sensi del DPCM del 17 dicembre 2021 o
  • con riferimento a entrambi i DPCM se una medesima azienda deve verificare sia il rispetto dell’obbligo vaccinale per parte dei suoi dipendenti sia il possesso del green-pass per la restante parte dei propri dipendenti.

Le fasi di gestione del nuovo processo di verifica del rispetto dell’obbligo vaccinale sono le medesime di quelle di gestione del processo di verifica del green-pass, ovverosia: (a) fase di accreditamento da parte delle aziende/enti o propri intermediari, (b) fase di elaborazione, in cui l’INPS interroga quotidianamente la Piattaforma Nazionale-Digital Green Certificate (PN-DGC), per recuperare l’esito del rispetto dell’obbligo vaccinale e (c) fase di verifica, in cui i “verificatori”, specificati in fase di accredito, possono effettuare la verifica del rispetto dell’obbligo vaccinale.

I datori di lavoro già accreditati per la verifica del possesso del green-pass, nel caso in cui abbiano la necessità di verificare anche il rispetto dell’obbligo vaccinale, per una parte o per tutti i propri dipendenti, dovranno accreditarsi esplicitamente alla nuova funzionalità di verifica, secondo le modalità già utilizzate per il primo accreditamento, accedendo al servizio “GreenPass50+” e selezionando “Rispetto Obbligo Vaccinale”.

La funzionalità di verifica dell’obbligo vaccinale è attivata previa richiesta del datore di lavoro ed è disponibile al solo personale autorizzato alla verifica.

Nell’ipotesi in cui si verificasse una variazione dello stato vaccinale del dipendente, l’INPS informerà i soggetti autorizzati alle verifiche, mediante la specifica funzionalità di notifica.

L’Inps precisa che ai fini della verifica del rispetto dell’obbligo vaccinale, possono accreditarsi anche i datori di lavoro che abbiano meno di 50 dipendenti, nonché gli enti gestiti da NoiPA.

Inoltre, l’INPS ha ribadito che i “verificatori”:

  • selezionano, tra i dipendenti presenti nell’elenco visualizzato, solo il personale effettivamente in servizio, di cui è previsto l’accesso ai luoghi di lavoro ovvero
  • escludono gli assenti dal servizio e i dipendenti in lavoro agile, e,
  • esclusivamente per le posizioni selezionate, possono verificare il possesso del green-pass. Mentre la verifica del rispetto dell’obbligo vaccinale può essere effettuata a prescindere dalla presenza o meno del personale sul luogo di lavoro.

Febbraio 2022: NOVITA’ E RINNOVI CCNL

  1. CCNL Ombrelli e ombrelloni (Industria) e CCNL Pelli e cuoio (Industria): elemento di garanzia retributiva

Con decorrenza dall’anno 2021 ed effetto dal 1° febbraio 2022, l’ammontare dell’elemento di garanzia retributiva è innalzato ad Euro 230,00 lordi.

Le aziende in situazione di crisi rilevata nell’anno precedente l’erogazione e/o nell’anno di competenza dell’erogazione, che hanno fatto ricorso agli ammortizzatori sociali o abbiano formulato istanza per il ricorso a procedure concorsuali, potranno definire con le R.S.U. e/o le OO.SS. di categoria la sospensione, la riduzione o il differimento della corresponsione dell’E.G.R. per l’anno di competenza.

 

  1. CCNL Orafi e argentieri (Industria): apprendistato

Il CCNL prevede che i lavoratori assunti a partire dal 1° febbraio 2022 con contratto di apprendistato siano inquadrati nella categoria corrispondente alla qualifica professionale da conseguire. La retribuzione è quella minima contrattuale della categoria di inquadramento corrispondente alla qualifica professionale da conseguire ragguagliata, in coerenza con il percorso formativo che si conclude al termine del periodo di apprendistato, alle percentuali e relativi periodi di applicazione come riportato di seguito, fatte salve diverse intese delle parti contraenti:

  • primo terzo del periodo: 85%;
  • secondo terzo del periodo: 90%;
  • periodo finale: 95%.

 

  1. CCNL Metalmeccanici (Piccola industria – CONFAPI): welfare

A decorrere dall’anno 2022, le aziende dovranno mettere a disposizione di tutti i dipendenti strumenti di welfare del valore di Euro 200 da utilizzare entro il 31 dicembre 2022. Tale importo sarà successivamente attivato a decorrere dall’anno 2023 e dall’anno 2024 nonché da utilizzare entro il 31 dicembre di ciascun anno di riferimento.

Il CCNL precisa che, per gli anni 2022, 2023 e 2024, l’azienda deve mettere effettivamente a disposizioni dei lavoratori gli strumenti di welfare entro la fine del mese di febbraio di ciascun anno.

 

  1. Aumento dei minimi retributivi dal 1° febbraio 2022

A decorrere dal 1° febbraio 2022 è previsto un aumento dei minimi retributivi tabellari dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:

  • CCNL Calzaturieri (Piccola industria);
  • CCNL Giocattoli, modellismo (Piccola industria);
  • CCNL Lapidei (Piccola industria – CONFAPI);
  • CCNL Occhiali (Piccola industria);
  • CCNL Penne, matite e spazzole (Piccola industria);
  • CCNL Tessili (Piccola industria – Uniontessile).

 

  1. “Una tantum”

Nel mese di febbraio 2022 è prevista l’erogazione di importi a titolo di “una tantum” ai sensi dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:

  • CCNL Alimentari (Artigianato);
  • CCNL Panificatori (Artigianato);
  • CCNL Telecomunicazioni.

HR VIRTUAL BREAKFAST “Le novità in materia di Lavoro, Sussidi e Previdenza nella Legge di Bilancio 2022” (HR Capital – De Luca & Partners, 20 gennaio 2022)

Legge di Bilancio 2022: novità in materia di lavoro e previdenza sociale

Giovedì 20 gennaio, HR Capital e De Luca & Partners hanno organizzato un nuovo HR Virtual Breakfast.

Con oltre 100 partecipanti, l’HR Virtual Breakfast organizzato da  HR Capital e De Luca & Partners oggi 20 gennaio ha registrato notevole interesse sui temi caldi di lavoro, sussidi e previdenza nella Legge di Bilancio 2022.

Un incontro, realizzato in modalità digitale tramite la piattaforma Zoom, che ha visto gli interventi di Andrea Di Nino, Consulente del Lavoro di HR Capital e Valentino Biasi, Managing Associate di De Luca & Partners, con la moderazione di Alberto De Luca, Partner di De Luca & Partners.

Sono stati affrontati temi di grande rilievo, che hanno permesso di dare vita a un dibattito ricco e partecipato.

Si è parlato di:

  • ammortizzatori sociali
  • riorganizzazione aziendale
  • delocalizzazioni e cessazione dell’attivita’ produttiva
  • contratto di espansione
  • tirocini extracurriculari
  • incentivi all’occupazione / esoneri contributivi
  • sostegno all’occupazione femminile
  • reddito di cittadinanza, naspi e dis-coll
  • pensioni
  • rimodulazione irpef, irap e detrazioni lavoro dipendente / dilazione pagamento cartelle esattoriali

Se hai dubbi e vuoi approfondire la tematica, richiedi le slide scrivendo a comunicazione@hrcapital.it

La deprivazione delle mansioni comporta il diritto al risarcimento del danno patrimoniale e professionale (Andrea Di Nino, Sintesi – Ordine dei Consulenti del Lavoro, dicembre 2021)

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 31182 del 2 novembre 2021, si è espressa in merito alla risarcibilità del danno costituito dalla deprivazione delle mansioni assegnate al dipendente, in violazione dell’art. 2013 c.c..

In particolare, i fatti di causa hanno visto il Tribunale di Roma accogliere parzialmente le domande proposte da un lavoratore, il quale chiedeva la condanna del proprio datore di lavoro al risarcimento del danno alla professionalità risentito per effetto della totale deprivazione delle mansioni assegnate, tale da determinare “un grave pregiudizio alla libera esplicazione della personalità in ambito lavorativo”, arrecando al lavoratore “una notevole riduzione delle chance di crescita professionale”.

La pronuncia del Tribunale veniva riformata dalla Corte distrettuale, che rigettava integralmente la domanda del lavoratore. Quest’ultimo ricorreva in Cassazione per la tutela del proprio diritto al risarcimento del danno.

La Corte di Cassazione, nelle sue rilevazioni, stigmatizza gli approdi ai cui è giunta la Corte di merito: in particolare, a dire dei giudici di legittimità, nel secondo grado di giudizio si sarebbe omesso l’esame di fatti decisivi, “tralasciando di considerare gli esiti del pregresso contenzioso” – inerente al periodo lavorativo svolto alle dipendenze del proprio datore di lavoro anteriormente al distacco disposto in seguito ed oggetto del giudizio in esame – “alla stregua dei quali era emerso, con statuizione coperta dal giudicato, che il ricorrente era stato non solo oggetto di demansionamento, ma totalmente privato della attribuzione di qualsivoglia attività di lavoro”. Inoltre, si sarebbe tralasciato di considerare che “il comportamento si inseriva in una lunga e manifesta gestione illecita del rapporto di lavoro la cui prosecuzione costituiva oggetto di accertamento nel presente giudizio”, rimarcando chiaramente “la sostanziale situazione di inerzia lavorativa nella quale era stato collocato il ricorrente”.

Al riguardo, la Cassazione rammenta che secondo l’art. 2103 c.c., comma 1 – nella versione di testo anteriore alle modifiche di cui al D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81 – “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto […] ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte”. Tale norma è violata, avuto riguardo alla libertà ed alla dignità del lavoratore nei luoghi in cui presta la sua attività ed al sistema di tutela del suo bagaglio professionale, quando il dipendente venga assegnato a mansioni inferiori.

Viene osservato dai giudici che la presente costituisce una “protezione tradizionalmente intesa come di contenuto inderogabile, rispetto alla quale l’art. 2103 c.c., comma 2, sancisce la nullità di ogni patto contrario. L’assegnazione a mansioni inferiori rappresenta poi, fatto potenzialmente idoneo a produrre una pluralità di conseguenze dannose, sia di natura patrimoniale che di natura non patrimoniale”.

Sul punto, la Suprema Corte considera come l’inadempimento datoriale possa comportare “un danno da perdita della professionalità di contenuto patrimoniale che può consistere sia nell’impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare, sia nel pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali”.

Invero, la violazione dell’art. 2103 c.c. può pregiudicare “quel complesso di capacità e di attitudini definibile con il termine professionalità, che è di certo bene economicamente valutabile, posto che esso rappresenta uno dei principali parametri per la determinazione del valore di un dipendente sul mercato del lavoro”. La modifica in peius delle mansioni, nell’ottica dei giudici, è inoltre potenzialmente idonea a determinare un pregiudizio a beni di natura immateriale, anche ulteriori rispetto alla mera salute: nella disciplina del rapporto di lavoro, infatti, numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata del lavoratore, con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, “con la configurabilità di un danno non patrimoniale risarcibile ogni qual volta vengano violati, superando il confine dei sacrifici tollerabili, diritti della persona del lavoratore oggetto di peculiare tutela al più alto livello delle fonti”.

Nella pronuncia della Cassazione viene dunque affermato che la negazione o l’impedimento allo svolgimento delle mansioni, al pari del demansionamento professionale, comportano la lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore anche nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato. Tale lesione assume una “indubbia dimensione patrimoniale”, la quale rende il pregiudizio medesimo “suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa”.

Se, infatti, l’art. 2103 c.c., nella formulazione pro tempore vigente, riconosce esplicitamente il diritto del lavoratore a svolgere le mansioni per le quali è stato assunto ovvero equivalenti alle ultime effettivamente svolte, deve ritenersi sussistente il conseguente diritto del lavoratore a “non essere lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di compiti, ancorché in mancanza di conseguenze sulla retribuzione; in capo al lavoratore sussiste, dunque, non solo il dovere ma anche il diritto all’esecuzione della propria prestazione lavorativa – cui il datore di lavoro ha il correlato obbligo di adibirlo – costituendo il lavoro non solo un strumento di guadagno, ma anche una modalità di esplicazione del valore professionale e della dignità di ciascun cittadino”.

Nel cassare, dunque, la pronuncia della Corte di Appello, i giudici della Cassazione evidenziano che, pur in assenza di un intento persecutorio, il comportamento del datore di lavoro che lasci in condizione di inattività il dipendente costituisce una violazione dell’art. 2103 c.c., oltre a ledere il diritto al lavoro, inteso quale “mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché della professionalità del dipendente”.

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