Lavoratori impatriati: i chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate sullo smart working all’estero

Con la risposta ad interpello n. 621/2021, l’Agenzia delle Entrate si è espressa in merito al regime fiscale applicabile ai lavoratori impatriati che, durante l’emergenza sanitaria da Covid-19, hanno svolto la propria attività lavorativa in modalità agile (c.d. “smart working”) all’estero anziché in Italia.

I fatti oggetto dell’istanza di interpello

La Società istante, in qualità di sostituto di imposta, ha chiesto chiarimenti all’Agenzia delle Entrate circa la possibilità di applicare il regime agevolato per lavoratori impatriati di cui all’art. 16 del D.Lgs. 147/2015 ad un proprio dipendente che, durante il 2020, ha lavorato in smart working nei Paesi Bassi.

In particolare, l’istante ha chiesto se “per il lavoratore che, nel corso del periodo di imposta 2020, ha trascorso all’estero più di 184 giorni, il reddito relativo ai giorni di lavoro svolti nei Paesi Bassi sia comunque da considerare come reddito prodotto in Italia e beneficiare dell’agevolazione nonostante il mancato rispetto del requisito della prevalenza dell’attività svolta in Italia nel corso dell’anno”.

La normativa di riferimento e la risposta dell’Agenzia delle Entrate

L’art. 16 del D.Lgs. 147/2015, così come da ultimo modificato dal c.d. Decreto Crescita, dispone che per fruire del trattamento agevolato, ovverosia la riduzione dell’imponibile fiscale del 70% per cinque anni di imposta, è necessario che il lavoratore:

  • trasferisca la propria residenza fiscale in Italia;
  • non sia stato residente in Italia nei due periodi di imposta precedenti il trasferimento e si impegni a permanere in Italia per almeno due anni;
  • svolga l’attività lavorativa prevalentemente nel territorio italiano.

Beneficiano di tale regime anche i cittadini, appartenenti all’Unione Europea o ad uno Stato Extra-UE con il quale risulti in vigore una convenzione contro le doppie imposizioni fiscali, i quali:

  • siano in possesso di un titolo di laurea e abbiano svolto continuativamente un’attività di lavoro dipendente (o autonomo o attività di impresa) fuori dall’Italia nei 24 mesi precedenti il trasferimento;
  • abbiano svolto continuativamente un’attività di studio fuori dall’Italia negli ultimi 24 mesi conseguendo un titolo accademico.

Tutto ciò premesso, l’Agenzia delle Entrate ha posto l’attenzione sul requisito che l’attività lavorativa sia svolta “prevalentemente nel territorio italiano”, richiamando la circolare n. 17/E del 23 maggio del 2017. Secondo detta circolare tale requisito “deve essere verificato in relazione a ciascun periodo di imposta e risulta soddisfatto se l’attività lavorativa è prestata nel territorio italiano per un periodo superiore a 183 giorni nell’arco dell’anno”.

Pertanto, a parere dell’Agenzia dell’Entrate, il lavoratore non può beneficiare dell’agevolazione fiscale in esame se non presta attività sul territorio italiano per almeno 183 giorni in un anno. Ciò non significa però che detta agevolazione sia non più applicabile: come chiarito dall’Agenzia delle Entrate, il beneficio è fruibile per gli anni in cui il requisito è soddisfatto. Resta fermo che gli altri anni concorreranno ugualmente al computo del quinquennio.

Nel caso di specie l’Agenzia delle Entrate ha osservato che “l’Istante non può applicare l’agevolazione fiscale di cui all’art. 16 del D.Lgs. 147/2021 ai redditi erogati al dipendente considerato che gli stessi non sono stati prodotti nel territorio italiano e che, pertanto, per il periodo di imposta 2020 l’attività lavorativa non è stata svolta prevalentemente nel territorio dello Stato”. Il lavoratore durante il 2020 ha, infatti, prestato attività lavorativa in Italia per soli 76 giorni (a fronte del minimo di 183 gg),

L’Agenzia delle Entrate fa presente, altresì, che il lavoratore, se il reddito prodotto dovesse essere assoggettato ad imposizione ai sensi dell’art. 15 della Convenzione contro le doppie imposizioni in vigore tra Italia e Paesi Bassi, potrà fruire del credito per le imposte estere nei limiti di cui all’art. 165 del TUIR.

L’incentivo fiscale per gli impatriati non richiede che il datore di lavoro sia italiano

Con la risposta ad interpello n. 596/2021 l’Agenzia delle Entrate si è espressa in merito al riconoscimento dell’incentivo fiscale per gli impatriati al lavoratore che, dall’estero, si reca in Italia per lavorare in modalità “smart working”.

I fatti oggetto dell’istanza di interpello

Il soggetto istante è un cittadino italiano, trasferitosi all’estero nell’anno 2013 ed iscritto dal 2019 all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE), il quale:

  • dal 30 giugno 2014 al 31 gennaio 2016 ha lavorato alle dipendenze di un datore di lavoro;
  • dal 1° febbraio 2016 è stato assunto da un nuovo datore di lavoro;
  • dal 1° maggio 2021 si è trasferito in Italia con il nucleo familiare per continuare a svolgere l’attività lavorativa alle dipendenze di tale datore di lavoro, in modalità “smart working”.

Inoltre, l’istante ha precisato che il 23 febbraio 2021 il datore di lavoro estero gli ha accordato di lavorare “a distanza dall’Italia come dipendente” per un periodo di almeno due anni. Il lavoratore, pertanto, ha chiesto chiarimenti in ordine alla possibilità di potere fruire del regime speciale per lavoratori impatriati, comprensivo dell’estensione di ulteriori cinque periodi d’imposta prevista in presenza di un figlio minore.

I requisiti previsti dalla normativa

Alla luce dell’interpello presentato, l’Agenzia delle Entrate ha ripercorso i principali tratti della normativa, che vedono l’articolo 16 del D.Lgs. 147/2015 elencare i requisiti soggettivi e oggettivi utili a definirne il campo di applicazione.

La citata disposizione è stata oggetto di diverse modifiche, operate dall’articolo 5 del D.L. 34 in vigore dal 1° maggio 2019, le quali trovano applicazione nei confronti dei soggetti che, a decorrere dal 30 aprile 2019, trasferiscono la residenza in Italia ai sensi dell’articolo 2 del TUIR.

L’Agenzia delle Entrate, nella sua risposta, ha evidenziato come, per fruire del trattamento fiscale agevolato, sia necessario che il lavoratore:

a) trasferisca la residenza nel territorio dello Stato ai sensi dell’articolo 2 del TUIR;

  1. b) non sia stato residente in Italia nei due periodi d’imposta antecedenti al trasferimento e si impegni a risiedere in Italia per almeno 2 anni;
  2. c) svolga l’attività lavorativa prevalentemente nel territorio italiano”.

Inoltre, ai sensi della medesima norma, sono destinatari del beneficio fiscale in esame “i cittadini dell’Unione europea o di uno Stato extra UE con il quale risulti in vigore una Convenzione contro le doppie imposizioni o un accordo sullo scambio di informazioni in materia fiscale che:

  1. a) sono in possesso di un titolo di laurea e abbiano svolto “continuativamente” un’attività di lavoro dipendente, di lavoro autonomo o di impresa fuori dall’Italia negli ultimi 24 mesi o più, ovvero
  2. b) abbiano svolto “continuativamente” un’attività di studio fuori dall’Italia negli ultimi 24 mesi o più, conseguendo un titolo di laurea o una specializzazione post lauream”.

Le conclusioni dell’Agenzia delle Entrate sul caso in esame

Alla luce delle previsioni normative illustrate, l’autorità fiscale ha ricordato che, in merito all’agevolazione qui trattata, sono stati forniti puntuali chiarimenti con circolare n. 33/E del 28 dicembre 2020.

Al paragrafo 7.5 di detta circolare viene precisato che “il citato articolo 16, come modificato dall’articolo 5, comma 1, del decreto-legge n. 34 del 2019, non richiede che l’attività sia svolta per un’impresa operante sul territorio dello Stato, pertanto, possono accedere all’agevolazione i soggetti che vengono a svolgere in Italia attività di lavoro alle dipendenze di un datore di lavoro con sede all’estero, o i cui committenti (in caso di lavoro autonomo o di impresa) siano stranieri (non residenti)”.

Con riferimento al caso di specie, l’Agenzia ha ritenuto che il lavoratore istante, qualora in possesso di tutti i requisiti previsti, “potrà beneficiare dell’agevolazione fiscale di cui all’articolo 16, comma 1, del d.lgs. n. 147 del 2015 […] per i redditi di lavoro dipendente prodotti in Italia a decorrere dal periodo d’imposta 2021, nel quale trasferisce la residenza fiscale in Italia, e per i successivi quattro periodi di imposta”.

Inoltre, la presenza di un figlio minorenne gli consentirà di fruire dell’incentivo per ulteriori cinque periodi d’imposta, con assoggettamento fiscale del reddito agevolato nella misura ridotta del 50%, ai sensi del comma 3-bis dell’articolo 16.

INPS: modalità di calcolo del “ticket” di licenziamento

Con la circolare n. 137 dello scorso 17 settembre, l’INPS ha reso note le modalità di calcolo del contributo di licenziamento a carico del datore di lavoro nei casi di licenziamento collettivo e per le aziende rientranti in area CIGS.

L’obbligo di versamento del “ticket”

L’Istituto ha operato una completa ricognizione sull’applicazione dell’obbligo di versamento del “ticket” o contributo di licenziamento, di cui all’art. 2, commi da 31 a 35, della legge n. 92/2012, valutando tutte le possibili opzioni che ne impongono il pagamento e fornendo precisazioni in ordine alla relativa determinazione.

L’Istituto, peraltro, ha ricalibrato contestualmente il proprio orientamento in merito alla quantificazione del contributo, preannunciando il recupero delle differenze eventualmente non versate dai datori di lavoro.

Entrando più nel dettaglio, l’INPS ha osservato che ai sensi dell’art. 2, comma 1, della legge n. 92/2012, così come successivamente modificato dall’art. 1, comma 250, lettera f), della legge n. 228/2012: “Nei casi di interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per le causali che, indipendentemente dal requisito contributivo, darebbero diritto all’ASpI, intervenuti a decorrere dal 1° gennaio 2013, è dovuta, a carico del datore di lavoro, una somma pari al 41 per cento del massimale mensile di ASpI per ogni dodici mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni. Nel computo dell’anzianità aziendale sono compresi i periodi di lavoro con contratto diverso da quello a tempo indeterminato, se il rapporto è proseguito senza soluzione di continuità o se comunque si è dato luogo alla restituzione di cui al comma 30”.

Da tale disposizione si evince come sia necessario prioritariamente determinare l’anzianità lavorativa del lavoratore cessato, applicando le regole di computo esposte dalla circolare n. 40/2020 dell’INPS.

Il contributo è calcolato in proporzione ai mesi di anzianità aziendale maturati dal lavoratore nel limite massimo di 36 mesi: l’importo dovuto è pari al 41% del massimale mensile NASpI per ogni 12 mesi di durata del rapporto di lavoro, mentre, per i periodi di lavoro inferiori all’anno, il contributo è determinato in proporzione al numero dei mesi di durata del rapporto di lavoro.

Quantificazione nei casi di licenziamento collettivo e di licenziamento in deroga al “blocco”

La misura del contributo in caso di licenziamento collettivo è determinata utilizzando per ogni singolo lavoratore i criteri sopraesposti e considerando altri due fattori, ossia se:

  • la dichiarazione di eccedenza del personale ha formato o meno oggetto dell’accordo sindacale di cui all’art. 4, comma 9, della legge n. 223/1991: nel caso non sia stata oggetto di accordo, a decorrere dal 1° gennaio 2017 il contributo è moltiplicato per 3 volte (cfr. l’art. 2, comma 35, della legge n. 92/2012);
  • l’azienda rientra nel campo di applicazione della CIGS ed è quindi tenuta alla contribuzione per il finanziamento dell’integrazione salariale straordinaria.

A decorrere dal 1° gennaio 2018, infatti, per ciascun licenziamento effettuato da un datore di lavoro tenuto alla contribuzione per il finanziamento dell’integrazione salariale straordinaria, l’aliquota percentuale del “ticket” di licenziamento è pari all’82%.

Sono esclusi dall’innalzamento dell’aliquota i licenziamenti collettivi la cui procedura sia stata avviata entro il 20 ottobre 2017, ancorché le interruzioni del rapporto di lavoro siano avvenute in data successiva al 1° gennaio 2018.

Inoltre, richiamando la normativa emergenziale COVID-19, nelle ipotesi in cui il datore di lavoro sia tenuto al versamento del “ticket” in quanto il rapporto di lavoro si è risolto per adesione del lavoratore all’accordo collettivo aziendale, il contributo è dovuto nella misura pari al 41% del massimale mensile NASpI per ogni 12 mesi di anzianità aziendale dello stesso negli ultimi 3 anni. Ciò, anche qualora si verifichi la contestuale risoluzione di più rapporti di lavoro di dipendenti che aderiscono alla citata fattispecie di accordo.

Relativamente al massimale NASPI che rappresenta la base di calcolo per determinare la misura del contributo dovuto, l’INPS ricorda che è annualmente determinato e comunicato con apposita circolare e che per l’anno 2021 è pari a 1.334,40 euro.

I controlli predisposti dall’INPS

L’Istituto ha evidenziato, infine, che, a seguito di recenti controlli sulle proprie banche dati, è emerso che la modalità di calcolo del “ticket” di licenziamento, nel corso degli anni, non è sempre avvenuta conformemente all’art. 2, comma 31, della legge n. 92/2012. Ciò in quanto non è  stata correttamente valorizzata la base di calcolo del contributo, pari all’importo del massimale annuo AspI/NASpI, con la conseguenza che alcune aziende hanno versato importi maggiori di quelli dovuti.

Per le interruzioni dei rapporti di lavoro avvenute a decorrere dal 1° maggio 2015, data di istituzione della NASpI, invece, il contributo versato dalle aziende risulta in taluni casi di importo inferiore a quello dovuto.

Sul punto, l’Istituto ha evidenziato come, con apposito successivo messaggio, saranno fornite le indicazioni operative per la regolarizzazione dei periodi di paga scaduti alla data di pubblicazione della circolare in commento.

Contratto a tempo determinato: le indicazioni operative dell’INL sulle nuove causali

Con la nota n. 1363 dello scorso 14 settembre 2021, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro (“INL”) ha fornito indicazioni operative circa la modifica della disciplina delle causali da inserire nei contratti a termine.

Riferimenti normativi

Alla disciplina del lavoro a tempo determinato contenuta nel D.Lgs. n. 81/2015 – così come modificato dal D.L. 87/2018, convertito in Legge 96/2018 – sono state apportate variazioni sostanziali a seguito dell’emanazione del D.L. n. 73, convertito con modificazioni dalla L. 23 luglio 2021, n. 106.

In particolare, l’articolo 19 del D.Lgs. n. 81/2015 è stato modificato con l’inserimento della lettera b-bis) al comma 1 e del comma 1-bis.

Nello specifico il legislatore ha previsto la possibilità di inserire nei contratti a termine una nuova tipologia di causale determinata dai contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e dai contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria. Inoltre, i datori di lavoro potranno stipulare un primo contratto a termine di durata superiore ai 12 mesi, ma comunque non eccedente i 24 mesi di durata, nel caso si verifichino specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di lavoro fino al 30 settembre 2022.

I chiarimenti dell’INL

In primo luogo, l’INL ricorda che le causali sono necessarie non solo per i contratti superiori a 12 mesi, ma anche nelle seguenti ipotesi:

  1. proroga del contratto quando si superano i 12 mesi (articolo 21, comma 1, D.Lgs. 81/2015);
  2. rinnovo del contratto a termine, sempre (articolo 21, comma 1, D.Lgs. 81/2015);
  3. ulteriore contratto a tempo determinato, raggiunta la soglia dei 24 mesi, stipulato presso l’ITL e di durata massima di 12 mesi (articolo 19, comma 3, D.Lgs. 81/2015).

La novella normativa impatta, ovviamente, in ognuno dei profili sopra individuati, in quanto il rinvio contenuto nell’articolo 21, comma 1 (di fatto, il contratto ulteriore presso l’ITL rientra comunque nella disciplina dell’obbligo di causale, essendo qualificabile come rinnovo) rimanda direttamente all’articolo 19, comma 1.

L’intervento della contrattazione collettiva (“specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di cui all’articolo 51”) per la sua validità, deve rispondere a 2 requisiti:

  1. a) i contratti collettivi “legittimati” devono essere quelli previsti dall’articolo 51 del D.Lgs. 81/2015, ovverosia i “contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria”;
  2. b) i contratti collettivi devono individuare “specifiche esigenze” in base alle quali è possibile apporre, ove necessario, un termine al contratto.

Se, sulla rappresentatività, rimangono immutate le incertezze applicative, non essendo disponibili indici certi di misurazione, è bene prestare attenzione soprattutto alla necessità che gli accordi “specifichino le esigenze”. Correttamente, l’ITL ritiene che la contrattazione collettiva debba individuare ipotesi concrete, senza, quindi, utilizzare formulazioni generiche, citando come esempio le note “ragioni tecniche, organizzative, produttive”.

Quanto sopra risulta di particolare interesse sia come utile supporto negli accordi che si vorranno sottoscrivere alla luce della nuova delega, sia come chiave interpretativa sulla possibilità di richiamare previsioni già contenute generalmente nella contrattazione collettiva di livello nazionale. Pur in assenza di una delega espressa, la contrattazione collettiva nazionale si è infatti spinta, in passato, nell’individuazione di causali di utilizzo del contratto a termine e, pertanto, la novella normativa va a togliere ogni dubbio di legittimità a tali disposizioni contrattuali. Disposizioni che, in assenza, avrebbero potuto giocare un ruolo nel dettagliare/integrare le causali in caso di contenzioso, ma senza alcuna “forza di legge”.

Rispetto alla contrattazione di prossimità, ex articolo 8, D.L. 138/2011 – che poteva e può essere sfruttata in deroga rispetto al tassativo sistema di causali –la contrattazione ex articolo 51, D.Lgs. 81/2015 non richiede la sussistenza delle finalità previste dall’articolo 8 e non ha la necessità di applicare meccanismi maggioritari nella controparte sindacale.

Come anticipato, la novella normativa è stata accompagnata dalla previsione che “il termine di durata superiore a dodici mesi, ma comunque non eccedente ventiquattro mesi, di cui al comma 1 del presente articolo, può essere apposto ai contratti di lavoro subordinato qualora si verifichino specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di lavoro di cui all’articolo 51, ai sensi della lettera b-bis) del medesimo comma 1, fino al 30 settembre 2022”.

Come opportunamente evidenziato dalla nota dell’INL, la provvisorietà della disposizione riguarda una specifica fattispecie in cui è necessario utilizzare le causali, cioè quando viene apposto al primo contratto un termine superiore ai 12 mesi.

Pertanto, ne discendono due conseguenze:

  1. per utilizzare le causali contrattuali in caso di contratti di durata superiore a 12 mesi, il termine ultimo per la sottoscrizione del contratto individuale è il 30 settembre 2022, a prescindere dalla data di scadenza, che potrà essere successiva;
  2. successivamente alla data del 30 settembre 2022, le causali della contrattazione collettiva potranno essere ancora utilizzate nelle rimanenti fattispecie in cui sussiste l’obbligo di causale che non rientrano nel comma 1-bis (la proroga superati i 12 mesi, il rinnovo del contratto e l’ulteriore contratto presso l’ITL).

Novembre 2021: NOVITA’ E RINNOVI CCNL

  1. CCNL Farmacie private: assistenza sanitaria integrativa

A decorrere dal 1° novembre 2021, i datori di lavoro dovranno versare un contributo mensile pari a 13 Euro per ciascun dipendente assunto a tempo indeterminato, non computabile ai fini della quantificazione del TFR.

Tale contributo, previsto dall’accordo di rinnovo del CCNL del 7 settembre 2021, è dovuto nell’ottica di assicurare ai lavoratori prestazioni assistenziali integrative del Servizio Sanitario Nazionale.

Le parti stipulanti l’accordo hanno disposto che il sistema di assistenza sanitaria integrativa dovrà essere operante dal 1° gennaio 2022, una volta individuate le modalità di erogazione. In mancanza, il contributo mensile in oggetto sarà corrisposto direttamente ai lavoratori come elemento distinto della retribuzione (“EDR”).

 

  1. CCNL Farmacie private: permessi

L’accordo di rinnovo del CCNL ha previsto che ai lavoratori assunti dal 1° novembre 2021 da farmacie fino a 40 dipendenti, fermo restando il godimento delle ore di permesso già previste dal CCNL, le ulteriori 40 ore permesso verranno riconosciute in misura pari al 50%, decorsi tre anni dall’assunzione e in misura pari al 100% decorsi sei anni dall’assunzione. A tal fine, per il calcolo degli anni di servizio si terrà conto anche del servizio prestato presso altre farmacie, che dovrà essere documentato per iscritto all’atto dell’assunzione, a pena di decadenza.

 

  1. CCNL Farmacie private: quadri

Con decorrenza dal 1° novembre 2021, la categoria dei quadri sarà articolata in tre aree professionali, a ciascuna delle quali corrisponderà un livello retributivo commisurato alla diversificazione delle responsabilità secondo l’articolazione di seguito indicata.

  • Area Q1: come già previsto dal C.C.N.L., Direttore responsabile;
  • Area Q2: appartiene a tale area il farmacista collaboratore che abbia maturato un elevato grado di specializzazione, possieda specifiche competenze tecnico professionali (attestate anche mediante la proficua partecipa rione a corsi di formazione) e svolga una o più delle mansioni di cui all’art. 4;
  • Area Q3: il farmacista collaboratore dopo 24 mesi di servizio nella qualifica.

 

  1. CCNL Metalmeccanica (Piccola industria): contributi sindacali

In occasione del rinnovo del CCNL, i sindacati stipulanti FIM, FIOM e UILM chiedono ai lavoratori non iscritti al sindacato una quota associativa straordinaria di 35 Euro, che dovrà essere trattenuta dai datori di lavoro sulla retribuzione afferente al mese di novembre 2021.

 

  1. CCNL Pubblici esercizi (Confcommercio), CCNL Pubblici esercizi, ristorazione e turismo, CCNL Stabilimenti balneari (Confcommercio), CCNL Turismo (Confesercenti): premio di risultato

Qualora non dovesse essere definito, nonostante la presentazione di una piattaforma integrativa, un accordo sul premio di risultato entro il 31ottobre 2021, i datori di lavoro saranno tenuti ad erogare, con la retribuzione del mese di novembre 2021, i seguenti importi:

Livello

Euro

A, B

186,00

1, 2, 3

158,00

4, 5

140,00

6s, 6, 7

112,00

 

In alternativa, a seguito di accordo aziendale/territoriale, l’azienda sarà tenuta a destinare la somma di 140 Euro a strumenti di welfare, da riproporzionare per il personale a tempo parziale.

 

  1. CCNL Autostrade e trafori (Concessionari): contratto a tempo parziale

Ai soli lavoratori con contratto a tempo parziale e indeterminato di durata pari a 880 ore annue, in forza al 16 dicembre 2019, è data facoltà di richiedere all’azienda di elevare stabilmente a 960 ore la durata minima contrattuale annua della prestazione lavorativa.

Le richieste dei lavoratori interessati possono essere presentate in alcune precise “finestre temporali” e, in particolare, entro il 30 novembre 2021 con riguardo alle prestazioni lavorative decorrenti dal 1° gennaio 2022.

 

  1. CCNL Metalmeccanici (Cooperative): contributi sindacali

Le aziende, mediante affissione in bacheca da effettuarsi fino al 30 novembre 2021, sono tenute a comunicare ai lavoratori che, in occasione del rinnovo del CCNL, i sindacati stipulanti FIM, FIOM e UILM chiedono ai lavoratori non iscritti al sindacato una quota associativa straordinaria di 35,00 Euro, da trattenere sulla retribuzione afferente al mese di dicembre.

Entro il 15 novembre 2021 i lavoratori potranno esprimere il consenso o il rifiuto alla trattenuta, mediante un apposito modulo da consegnare al datore di lavoro.

Inoltre, le aziende sono tenute a dare comunicazione alle organizzazioni sindacali, tramite le associazioni imprenditoriali, del numero delle trattenute effettuate.

 

  1. CCNL Metalmeccanici – piccola industria (CONFIMI): contributi sindacali

Le aziende, mediante affissione in bacheca da effettuarsi fino al 30 novembre 2021, sono tenute a comunicare ai lavoratori che, in occasione del rinnovo del CCNL, i sindacati stipulanti FIM e UILM chiedono ai lavoratori non iscritti al sindacato una quota associativa straordinaria di 35,00 Euro, da trattenere sulla retribuzione afferente al mese di dicembre.

Entro il 15 novembre 2021 i lavoratori potranno esprimere il consenso o il rifiuto alla trattenuta, mediante un apposito modulo da consegnare al datore di lavoro.

 

  1. Aumento dei minimi retributivi dal 1° novembre 2021

A decorrere dal 1° novembre 2021 è previsto un aumento dei minimi retributivi tabellari dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:

  • CCNL Farmacie private;
  • CCNL Ombrelli e ombrelloni (Industria);
  • CCNL Pelli e cuoio (Industria).

 

  1. “Una tantum”

Nel mese di novembre 2021 è prevista l’erogazione di importi a titolo di “una tantum” ai sensi dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:

  • CCNL Istituzioni socio-assistenziali – Misericordie.

 

Videosorveglianza e controlli a distanza: il Jobs Act ha mantenuto in vita il regime sanzionatorio dello Statuto dei lavoratori (Andrea Di Nino, Sintesi – Ordine dei Consulenti del Lavoro, ottobre 2021)

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 32234 del 23 aprile 2021, ha affermato che il regime sanzionatorio previsto dalla legge n. 300/1970 e riferito al controllo a distanza dei lavoratori causato dai sistemi di videosorveglianza è stato mantenuto in vigore a seguito dell’emanazione del Jobs Act.

In particolare, i fatti di causa hanno visto un datore di lavoro predisporre, all’interno del proprio esercizio commerciale, un sistema di videosorveglianza. Come si evince dalla sentenza della Suprema Corte, di fatto, l’avvenuta installazione di tale sistema implicava un controllo, da parte aziendale, della “attività svolta all’interno dell’esercizio commerciale dagli addetti alla vendita”.

A seguito di un accesso ispettivo avvenuto nell’esercizio commerciale, è stato redatto un verbale che rilevava come all’interno del locale commerciale vi fosse presenza di un sistema di videosorveglianza che non rispettava le prescrizioni previste dalla normativa.

Sul punto, giova ricordare come l’art. 4 della legge n. 300/1970 preveda la necessità di un accordo sindacale o di una specifica autorizzazione da parte dell’Ispettorato del Lavoro al fine di implementare, nei luoghi di lavoro, impianti di videosorveglianza “dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”.

Tali strumenti, inoltre, “possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale”.

In un primo momento, il giudice di primo grado aveva assolto il datore di lavoro circa la violazione di tale previsione, essendo stato ritenuto che “per effetto della entrata in vigore del D.Lgs. n. 196/2003 la condotta contestata non fosse più prevista dalla legge come reato”.

Avverso tale sentenza, il Procuratore generale della Corte di appello di Campobasso ha interposto ricorso per cassazione, osservando che – diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale – la disposizione che si assumeva essere stata violata dal datore di lavoro non avesse subito, in verità, alcuna abrogazione.

Il ricorso ha trovato accoglimento da parte della Corte di Cassazione, che lo ha ritenuto fondato, osservando che “anche a seguito dell’avvenuta abrogazione degli art. 4 e 38 della legge n. 300 del 1970, costituisce reato l’uso di impianti audiovisivi e altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, in quanto sussiste continuità normativa tra l’abrogata fattispecie e quella attualmente prevista dall’art. 171 in relazione all’art. 114 del D.Lgs. n. 196 del 2003, come rimodulata dall’art. 23 del D.Lgs. n. 151 del 2015, avendo la normativa sopravvenuta mantenuto integra la disciplina sanzionatoria per la violazione del citato art. 4”.

I giudici di legittimità hanno dunque sottolineato come il regime sanzionatorio per la violazione in oggetto non sia stato abrogato, bensì mantenuto in vita da parte del Jobs Act. In particolare, tale regime prevede che le violazioni di quanto previsto dal citato articolo 4 siano punite con “ammenda da L. 300.000 a L. 3.000.000 o con l’arresto da 15 giorni ad un anno”, con applicazione congiunta “nei casi più gravi”, ai danni del datore di lavoro.

È stata così annullata la sentenza di primo grado, la quale aveva assolto il datore di lavoro, disponendo il necessario riesame da parte del tribunale competente.

Gli elementi tipici della subordinazione nel rapporto di lavoro giornalistico: l’orientamento della Cassazione (Andrea Di Nino, Sintesi – Ordine dei Consulenti del Lavoro, settembre 2021)

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21793 del 29 luglio 2021, ha affermato che l’attività giornalistica resa in forma di collaborazione ma in maniera continuativa e ad alcune determinate condizioni implica la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato.

In particolare, i fatti di causa hanno visto una lavoratrice autonoma agire giudizialmente al fine di ottenere l’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato presso un gruppo editoriale. La lavoratrice, inoltre, richiedeva la condanna del datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive dovute ai sensi del CCNL a seguito della conversione.

In un primo momento, la Corte di appello di Trieste, in parziale accoglimento del ricorso presentato dalla lavoratrice ed in riforma della sentenza del tribunale competente, accertava la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato nel periodo dal gennaio 2010 al marzo 2013. La domanda di condanna al pagamento delle differenze retributive veniva, tuttavia, dichiarata nulla.

I giudici di merito avevano infatti accertato che nel periodo in contestazione la lavoratrice aveva seguito con continuità la cronaca locale, avendo la responsabilità di uno specifico settore informativo, del quale aveva assicurato la copertura durante il corso del rapporto di lavoro.

La società editrice, in opposizione al giudizio di secondo grado, ricorreva in Cassazione rivendicando l’inesistenza di un rapporto di collaborazione fisso tra le parti, poiché non risultava dimostrato che alla lavoratrice fosse stata chiesta, nel corso del rapporto di lavoro, alcuna disponibilità tra una prestazione giornalistica e l’altra.

Inoltre, il datore di lavoro riteneva che nel rapporto intercorso tra le parti non fossero fattualmente ravvisabili i tipici elementi rilevatori della subordinazione, sia in generale che con specifico riguardo all’attività giornalistica. La lavoratrice, infatti, lavorava in maniera discontinua e con un impegno circoscritto nel tempo; non aveva mai, inoltre, dovuto garantire la propria presenza tra una prestazione di lavoro e l’altra, né era tenuta ad assicurare la propria reperibilità; non doveva, infine, chiedere ferie. A dire del datore di lavoro, in definitiva, la lavoratrice non poteva dirsi assoggettata ad alcun potere direttivo, organizzativo e disciplinare.

I giudici della Corte di Cassazione, nell’esaminare il ricorso presentato dall’editore, hanno osservato che “nell’ambito del lavoro giornalistico per la figura del collaboratore fisso rileva la continuità dell’apporto, limitato, di regola, ad offrire servizi inerenti ad un settore informativo specifico di competenza”. Attingendo da consolidata giurisprudenza, la Suprema Corte ha ribadito come per “continuità dell’apporto” si intenda lo svolgimento di un’attività non occasionale, “rivolta ad assicurare le esigenze formative e informative di uno specifico settore”, a cui si affiancano la “responsabilità di un servizio, che implica la sistematica redazione di articoli su specifici argomenti o rubriche” e il “vincolo di dipendenza, per effetto del quale l’impegno del collaboratore di porre la propria opera a disposizione del datore di lavoro permane anche negli intervalli fra una prestazione e l’altra”.

In sostanza, la Cassazione indica che la continuità di prestazione risulta fondata quando il collaboratore fisso, pur non garantendo quotidianamente la propria opera, assicuri, conformemente ad un mandato, “una prestazione non occasionale, rivolta a soddisfare le esigenze formative o informative riguardanti uno specifico settore di sua competenza”.

Altresì, sussiste un vincolo di dipendenza nei casi in cui “l’impegno del collaboratore fisso di porre a disposizione la propria opera non venga meno tra una prestazione e l’altra in relazione agli obblighi degli orari, legati alla specifica prestazione e alle esigenze di produzione, e di circostanza derivanti dal mandato conferitogli”.

Si concretizza, infine, responsabilità di un servizio qualora al collaboratore fisso sia affidato l’impegno di redigere “normalmente e con carattere di continuità articoli su specifici argomenti o compilare rubriche”.

Alla luce delle considerazioni effettuate, la Cassazione acclara come nel secondo grado di giudizio sia stato accertato che la prestazione della lavoratrice era stata resa “continuativamente ed in maniera tutt’altro che occasionale”. Poteva infatti variare il numero degli articoli redatti, ma la prestazione era pressoché quotidiana, con eccezione della sola domenica.

Inoltre, è emerso come la lavoratrice avesse effettivamente la responsabilità di un settore, in relazione al quale lei stessa proponeva i temi da trattare.

È stato altresì riscontrato che la lavoratrice era inserita nell’organizzazione aziendale ed assoggettata alle direttive dei capi servizio di cui doveva rispettare i tagli e l’enfasi sulle notizie suggeriti. In definitiva, è stato accertato che le modalità con le quali si svolgeva la prestazione rivelavano la disponibilità della lavoratrice anche negli intervalli di tempo non lavorati.

Pertanto, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso del datore di lavoro, condannandolo al pagamento delle relative spese.

 

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