Contratto di rioccupazione: l’INPS pubblica le prime indicazioni operative circa lo sgravio contributivo (Andrea Di Nino, Sintesi – Ordine dei Consulenti del Lavoro, agosto 2021)

Con la circolare n. 115 del 2 agosto 2021, l’INPS ha fornito le prime istruzioni operative utili ai datori di lavoro beneficiari dell’esonero contributivo spettante in caso di ricorso al contratto di rioccupazione, introdotto dall’ art. 41 del D.L. 25 maggio 2021, n. 73 convertito con modificazioni dalla L. 23 luglio 2021, n. 10 (c.d. “Decreto Sostegni-bis”). A tale circolare, premette l’Istituto, seguirà un ulteriore provvedimento con cui verranno illustrate le specifiche modalità di richiesta e fruizione dell’agevolazione.

Al riguardo, l’INPS ha inoltre ricordato che, in data 28 giugno 2021, le autorità italiane hanno notificato alla Commissione europea la misura in trattazione e che la medesima Commissione, con la decisione C(2021) 5352 final del 14 luglio 2021, ha autorizzato l’applicabilità dell’esonero in oggetto nei casi e alle condizioni previste dalla citata normativa.

Il contratto di rioccupazione è stato istituito quale contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, la cui formalizzazione attribuisce al datore di lavoro il diritto a beneficiare, per un periodo massimo di sei mesi, di un esonero contributivo pari al 100% dei contributi previdenziali dovuti a proprio carico, esclusi premi e contributi dovuti all’ INAIL, nel limite massimo di Euro 6.000,00 base annua, riparametrato e applicato su base mensile. Resta ferma l’aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche.

Lo sgravio è attivabile da parte di tutti i datori di lavoro del settore privato, con esclusione dei datori di lavoro domestico e agricolo, che effettuino assunzioni a tempo indeterminato con contratto di rioccupazione nel periodo compreso tra il 1° luglio 2021 e il 31 ottobre 2021.

L’istituzione di tale nuova tipologia contrattuale e dello sgravio connesso rispondono, nelle intenzioni del legislatore, all’esigenza di agevolare e promuovere il reinserimento nel mercato del lavoro dei lavoratori in stato di disoccupazione e in previsione della fase di ripresa delle attività dopo l’emergenza epidemiologica.

L’assunzione con il contratto di rioccupazione è subordinata alla definizione, con il consenso del lavoratore, di un progetto individuale di inserimento, finalizzato a garantire l’adeguamento delle competenze professionali del lavoratore stesso al nuovo contesto lavorativo. Il progetto individuale di inserimento ha una durata di sei mesi, nel corso dei quali trovano applicazione le sanzioni previste dalla normativa vigente per il licenziamento illegittimo.

Durante il reinserimento è consentito il solo recesso per giusta causa o giustificato motivo; al termine del progetto, invece, è ammesso il recesso ad nutum, al pari di quanto avviene per il contratto di apprendistato. In assenza, il rapporto di lavoro prosegue come un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Si noti inoltre, sul punto, che il licenziamento durante o alla fine del periodo di reinserimento comporta la decadenza dal diritto all’esonero contributivo.

In generale, il diritto alla legittima fruizione della misura è subordinato alla sussistenza, alla data dell’assunzione, delle seguenti condizioni:

  • il lavoratore, alla data della nuova assunzione, deve trovarsi in stato di disoccupazione ai sensi dell’articolo 19 del D.Lgs. n. 150/2015;
  • il datore di lavoro non deve avere proceduto, nei sei mesi precedenti l’assunzione, a licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, nella medesima unità produttiva in cui avviene l’assunzione;
  • DURC regolare;
  • assenza di gravi violazioni in materia di lavoro e legislazione sociale;
  • rispetto degli accordi e dei contratti collettivi sottoscritti dalle OO.SS. comparativamente più rappresentative.

È, altresì, prevista la decadenza dal beneficio dell’esonero e la restituzione di quanto fruito per i datori di lavoro che procedono:

  • al licenziamento del lavoratore per cui si beneficia dell’agevolazione durante o al termine del periodo di inserimento di cui all’art. 41, comma 3, del Decreto Sostegni-bis;
  • al licenziamento collettivo o individuale per giustificato motivo oggettivo di un lavoratore impiegato nella medesima unità produttiva e inquadrato con lo stesso livello e categoria legale del lavoratore assunto con l’esonero in trattazione, nei sei mesi successivi all’assunzione agevolata.

L’INPS ha inoltre precisato che lo sgravio in argomento gode del beneficio della “portabilità”: pertanto, il lavoratore per il quale è stata già parzialmente fruita l’agevolazione, porterà con sé la medesima misura di esonero per i mesi residui spettanti in caso di nuova assunzione da parte del medesimo o di altro datore di lavoro.

Con specifico riferimento alla possibilità di riconoscere l’agevolazione per il periodo residuo nelle ipotesi di successiva riassunzione del medesimo lavoratore, l’INPS ha ribadito che l’esonero in trattazione può trovare applicazione per le sole assunzioni a tempo indeterminato con contratto di rioccupazione effettuate nel periodo dal 1° luglio 2021 al 31 ottobre 2021.

Inoltre, viene chiarito che, in caso di dimissioni del lavoratore, il beneficio contributivo trova applicazione per il periodo di effettiva durata del rapporto di lavoro.

Circa le possibilità di cumulo con altri benefici contributivi, viene infine confermata la fruibilità “in successione”: pertanto, una volta terminato l’esonero dei 6 mesi del contratto di rioccupazione, sarà possibile per i datori di lavoro beneficiario di un eventuale, ulteriori sgravi contributivi. L’INPS ha chiarito, sul punto, che il periodo di durata massima di tali ultimi esoneri dovrà essere calcolato al netto del periodo di fruizione dell’esonero contributivo legato al contratto di rioccupazione.

Fonte: Sintesi

Agenzia delle Entrate: chiarimenti sul trattamento fiscale delle retribuzioni percepite da lavoratori distaccati in Cina e rientrati in Italia a causa dell’emergenza epidemiologica

Con la risposta ad interpello n. 458/2021, l’Agenzia delle Entrate si è espressa in merito al trattamento fiscale da riservare alle retribuzioni erogate a lavoratori dipendenti distaccati in Cina che, a causa dell’emergenza sanitaria da Covid-19, hanno continuato a svolgere la propria attività lavorativa in modalità agile in Italia.

I fatti oggetto dell’istanza di interpello

La Società istante, in qualità di sostituto di imposta, ha chiesto chiarimenti all’Agenzia delle Entrate circa il corretto trattamento fiscale da applicare ai propri dipendenti originariamente distaccati in Cina e fatti rientrare in Italia, dal gennaio 2020, a causa dell’emergenza epidemiologica da Covid-19. L’istante, nel formulare il proprio interpello, ha precisato che gli stessi hanno continuato a svolgere la propria attività lavorativa in modalità agile (c.d. smartworking) ad esclusivo beneficio della distaccataria cinese.

In particolare, l’istante ha chiesto se:

  1. per i dipendenti che hanno trascorso in Italia meno di 184 giorni durante il 2020 (anno bisestile), la retribuzione percepita per i giorni di lavoro in Italia possa considerarsi come reddito prodotto nel territorio nazionale da soggetti non residenti e, pertanto, da assoggettare ad imposizione fiscale in Italia;
  2. la permanenza in Italia per più di 184 giorni durante il 2020 comporti o meno una modifica nello status di residenza fiscale dei lavoratori coinvolti.

L’istante ha proposto, alla luce delle disposizioni emesse dall’OCSE sul tema con nota del 3 aprile 2020 e successivamente aggiornate il 21 gennaio 2021, di non considerare di fonte italiana il reddito ivi prodotto dai lavoratori, ritenendo di non considerare l’impatto del rientro sulla determinazione della residenza fiscale dei lavoratori. L’OCSE, infatti, ha riconosciuto ad ogni giurisdizione la possibilità di adottare proprie indicazioni per evitare fenomeni di doppia imposizione fiscale durante l’emergenza sanitaria.

L’orientamento dell’Agenzia delle Entrate

Per quanto riguarda il primo punto, l’Agenzia delle Entrate ha precisato che gli orientamenti contenuti nell’analisi svolta dal Segretario dell’OCSE sono stati accolti dall’Italia unicamente sulla base e nei limiti degli accordi amministrativi interpretativi delle disposizioni contenute nelle Convenzioni per evitare le doppie imposizioni fiscali con Austria, Francia e Svizzera. Pertanto, solo in base a detti accordi, il reddito prodotto in un luogo può essere considerato prodotto nel territorio ove la prestazione sarebbe stata svolta in assenza dell’emergenza sanitaria da Covid-19.

L’autorità fiscale ha, quindi, osservato che nel caso di specie è necessario fare riferimento all’Accordo tra il governo della Repubblica italiana e il governo della Repubblica popolare cinese firmato il 31 ottobre del 1986 e ratificato con la L. 376/1989.

In base al combinato disposto dell’art 15 della predetta convenzione Italia – Cina e dell’art. 23 del TUIR, secondo l’Agenzia delle Entrate, i soggetti che abbiano trascorso meno di 183 (184 in anno bisestile) giorni in Italia sono soggetti a tassazione in relazione ai redditi prodotti lavorando sul territorio italiano pur non essendo residenti.

La conseguente doppia imposizione viene risolta, in conformità alle disposizioni presenti nella Convenzione, attraverso il riconoscimento di un credito d’imposta da parte della Cina, Stato di residenza fiscale effettiva dei lavoratori dipendenti.

In merito al secondo quesito l’Agenzia delle Entrate ha ricordato che “ai fini della individuazione della residenza fiscale di un individuo, secondo il diritto interno e in assenza di una disposizione normativa specifica che tenga conto dell’emergenza COVID, occorre far riferimento ai criteri indicati nell’articolo 2 del Tuir, la cui applicazione prescinde dalla circostanza che una eventuale permanenza della persona fisica nel nostro Paese sia dettata da motivi legati alla pandemia. Infatti, ai sensi dell’articolo 2, comma 2, del Tuir si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile”.

L’Agenzia, sul punto, ha confermato la necessità di tenere in considerazione non solo i giorni di presenza fisica in Italia ma anche le condizioni previste dal trattato sottoscritto con la Cina. Quest’ultimo enumera infatti, al paragrafo 2, le cosiddette “tie breaker rules” per dirimere eventuali conflitti di residenza tra gli Stati contraenti. Dette regole fanno prevalere il criterio dell’”abitazione permanente” cui seguono, in ordine gerarchico, il centro degli interessi vitali, il soggiorno abituale e la nazionalità.

In considerazione di tutto quanto sopra esposto, l’Agenzia delle Entrate ha convenuto che ai fini della individuazione della residenza fiscale di un lavoratore che svolge la propria attività lavorativa in smart working a seguito del rientro in Italia dal luogo ove era distaccato, salvo apposite disposizioni previste negli accordi bilaterali ad hoc, occorre far riferimento ai criteri indicati nell’articolo 2 del TUIR senza tener conto dell’impatto della pandemia da Covid-19.

Brexit: nuove precisazioni dall’INPS

A seguito del recesso del Regno Unito e dell’Irlanda del Nord dall’Unione Europea e in applicazione dell’accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione (TCA) e del Protocollo sul coordinamento della sicurezza sociale (PSSC) in esso contenuto, l’INPS, con la circolare n. 98 datata 8 luglio 2021, ha fornito le istruzioni operative in merito agli ammortizzatori sociali e alle modalità di scambio di informazioni tra istituzioni previdenziali.

Sono stati fornite, inoltre, precisazioni sull’applicabilità dell’Accordo di recesso (WA) di cui alla circolare INPS n. 16 del 4 febbraio 2020.

L’evoluzione della normativa

La circolare in argomento ripercorre lo sviluppo della complessa situazione normativa attinente al tema, da ultimo descritta dall’Istituto con la circolare n. 53 del 6 aprile 2021.

Come noto, il recesso del Regno Unito dall’Unione Europea è stato realizzato in una prima fase da un accordo, detto Accordo di Recesso (Withdrawal Agreement o “WA)”, stipulato in data 24 gennaio 2020 ed entrato in vigore il successivo 1° febbraio.

Il WA ha disposto la vigenza di un periodo di transizione durante il quale il diritto dell’Unione Europea in materia di sicurezza sociale ha continuato a trovare applicazione nei confronti del Regno Unito. I tratti normativi e operativi di tale periodo transitorio, terminato il 31 dicembre 2020, sono stati descritti dall’INPS nella circolare n. 16 del 4 febbraio 2020.

Terminato il periodo di transizione, le parti hanno, in data 24 dicembre 2020, stipulato un accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione (Trade and Cooperation Agreement o “TCA”) integrato dal Protocollo sul coordinamento della sicurezza sociale (Protocol on social security coordination o “PSSC”).

Ad ogni modo, sul punto, giova osservare come – ad integrazione di quanto indicato nella circolare n. 16/2020 – l’INPS abbia precisato che “il WA continua a tutelare i soggetti che rientrano nel suo campo di applicazione, anche dopo il 31 dicembre 2020. In particolare, il WA continua ad applicarsi ai cittadini dell’Unione europea residenti nel Regno Unito entro il 31 dicembre 2020 e ai cittadini britannici residenti in uno Stato membro entro la medesima data. Di conseguenza, il TCA e il PSSC, che di esso fa parte, si applicano di regola a fattispecie non coperte dal WA”.

Il TCA costituisce, dunque, la base giuridica su cui si fonderanno i futuri rapporti di collaborazione tra l’Unione Europea, il Regno Unito e l’Irlanda del Nord, una volta esauriti gli effetti giuridici del WA.

Il Protocollo sul coordinamento della sicurezza sociale (“PSSC”)

in merito al tema della sicurezza sociale trova rilievo applicativo il PSSC. Sul punto, l’INPS ricorda innanzitutto che, come già indicato nella citata circolare n. 53/2021, le disposizioni in materia di totalizzazione internazionale per l’accertamento del diritto e il calcolo delle prestazioni, continuano a trovare attuazione nelle materie a cui si estende il campo di applicazione del Protocollo, ai sensi dell’articolo SSC.7, rubricato “Totalizzazione dei periodi”.

Tale applicazione avviene anche con riferimento a “periodi assicurativi, fatti o situazioni successivi alla data del 31 dicembre 2020”.

La circolare in esame chiarisce, altresì che, con riferimento alle prestazioni di malattia e maternità/paternità, la menzionata totalizzazione dei periodi assicurativi maturati nel Regno Unito e in Italia resta possibile a conferma delle disposizioni specifiche del Titolo III del regolamento CE 883/2004.

In merito alle prestazioni familiari, infine, viene precisato che il PSCC non include le stesse nel proprio campo di applicazione. In riferimento a tali prestazioni, pertanto, nei rapporti tra Italia e Regno Unito troverà applicazione quanto previsto dall’articolo 2, comma 6-bis, del decreto-legge 13 marzo 1988, n. 69, convertito in legge 13 maggio 1988, n. 153, in relazione ai Paesi terzi che non hanno stipulato con l’Italia convenzioni o Accordi bilaterali in materia di prestazioni familiari.

INL: riattivazione delle procedure conciliative per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo

Con la nota n. 5186 dello scorso 16 luglio, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro (“INL”) ha fornito indicazioni operative circa la riattivazione delle procedure di conciliazione attinenti ai licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, in merito alle quali ha acquisito parere dell’Ufficio legislativo del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Riferimenti normativi

Fin dalla fase più acuta del periodo pandemico, il legislatore, con diversi interventi normativi, ha inteso arginare il ricorso ai licenziamenti collettivi ed individuali per giustificato motivo oggettivo, sospendendo anche le procedure già avviate al momento dell’entrata in vigore delle disposizioni normative restrittive.

Attualmente, la disciplina del c.d. divieto di licenziamento si ricava dalla lettura delle disposizioni degli ultimi decreti-legge emanati, tra cui il D.L. n. 41/2021, il D.L. n. 73/2021 e, infine, il D.L. n. 99/2021.

In particolare, l’art. 8, comma 9, del D.L. n. 41/2021 ha previsto il blocco dei licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo fino al 30 giugno 2021, con contestuale sospensione delle procedure di cui all’art. 7 della L. n. 604/1966.

Il successivo comma 10 del medesimo articolo, ha precluso alle imprese aventi diritto all’assegno ordinario e alla cassa integrazione salariale in deroga, fino al 31 ottobre 2021, la facoltà di licenziare per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della L. n. 604/1966, inibendo altresì le procedure in corso di cui all’art. 7 della medesima legge.

Il termine del 31 ottobre è stato fissato anche per le imprese del settore del turismo, degli stabilimenti balneari e del settore commercio.

Tuttavia, l’art. 43 del D.L. n. 73/2021 ha introdotto un’ulteriore eccezione prevedendo il divieto di licenziamento, fino al 31 dicembre 2021, in caso di richiesta dell’esonero contributivo da fruirsi entro tale data.

È opportuno evidenziare come, in tali circostanze, il divieto di licenziamento sia collegato alla domanda di integrazione salariale e quindi al periodo di trattamento autorizzato e non a quello effettivamente fruito. In aggiunta, i datori di lavoro non saranno soggetti al versamento del contributo addizionale all’INPS.

Inoltre, l’INL illustra come, a decorrere dal 1° luglio 2021, ai sensi dell’art. 8, comma 1, del D.L. n. 41/2021, il divieto di licenziamento sia venuto meno solo per le aziende che possono fruire della CIGO, ovverosia per tutti i datori di lavoro operanti nel settore industriale e manifatturiero.

I successivi interventi normativi di cui al D.L. n. 73/2021 e al D.L. n. 99/2021 hanno esteso, a determinate condizioni, il divieto di licenziamento oltre il 30 giugno 2021.

In particolare, per le aziende del settore tessile identificate, secondo la classificazione Ateco2007, con i codici 13, 14 e 15 (confezioni di articoli di abbigliamento e di articoli in pelle e in pelliccia e delle fabbricazioni di articoli in pelle e simili), il divieto di licenziamento è stato esteso sino al 31 ottobre 2021 (art. 4, comma 2, D.L. n. 99/2021) in virtù della possibilità di accedere ad ulteriore periodo di cassa integrazione di 17 settimane dal 1° luglio al 31 dicembre 2021.

Giova, sul punto, ricordare che il divieto opera a prescindere dalla effettiva fruizione degli strumenti di integrazione salariale.

In aggiunta, per le altre aziende rientranti nell’ambito di applicazione della CIGO, la possibilità di licenziare è inibita ai sensi degli art. 40, commi 4 e 5, e 40 bis, commi 2 e 3, del D.L. n. 73/2021 ai datori di lavoro che abbiano presentato domanda di fruizione degli strumenti di integrazione salariale e per tutta la durata degli stessi.

L’INL ricorda, infine, che l’articolo 40, comma 1, ha previsto la possibilità di stipulare un contratto di solidarietà in deroga al quale il legislatore non ha espressamente connesso la prosecuzione del divieto di licenziamento: in tali casistiche occorre considerare la finalità difensiva propria del contratto di solidarietà, volto ad evitare esuberi e licenziamenti del personale.

I chiarimenti dell’INL

Dal 1° luglio 2021 le aziende che non usufruiscono degli ammortizzatori sociali e per le quali non vige l’obbligo del divieto di licenziamento fino al 31 ottobre 2021 possono attivare le procedure di conciliazione per le casistiche di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

L’INL illustra come l’istanza debba essere presentata con il nuovo modello messo a disposizione sul proprio sito web. In tale nuovo modello sono presenti ulteriori informazioni che le parti dovranno fornire alla Commissione di Conciliazione al fine di verificare la possibilità di ricorrere alla procedura conciliativa. Per lo stesso motivo, i datori di lavoro che avevano in corso le procedure di conciliazione al momento dell’entrata in vigore del D.L. n. 18/2020 dovranno reiterare l’istanza utilizzando il medesimo modello.

Infine, l’eventuale presentazione di una domanda di cassa integrazione successiva alla definizione delle procedure ex art. 7 della L. n. 604/1966, sarà valutata ai fini della programmazione delle attività di vigilanza connesse alla fruizione degli ammortizzatori sociali.

E’ illegittimo demansionare una lavoratrice al rientro dalla maternità

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 20253 del 15 luglio 2021, ha dichiarato illegittimo adibire una lavoratrice, rientrata dalla maternità, a mansioni inferiori rispetto a quelle svolte prima del congedo.

I fatti di causa

Una lavoratrice adiva l’autorità giudiziaria affinché la società propria datrice di lavoro venisse condannata al pagamento delle differenze retributive e del risarcimento del danno per essere stata adibita, al rientro dalla maternità, a mansioni inferiori rispetto a quelle svolte in precedenza.

La Corte d’Appello territorialmente competente accoglieva la domanda della lavoratrice, escludendo però la natura discriminatoria del comportamento datoriale per difetto di prova.

Avverso la decisione di merito, la società datrice di lavoro proponeva ricorso in cassazione a cui resisteva la lavoratrice con controricorso recante ricorso incidentale a cui replicava la prima con controricorso.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha, innanzitutto, ribadito che il divieto di demansionamento di cui all’art. 2103 cod. civ. esclude che al dipendente “possano essere affidate, anche se soltanto secondo un criterio di equivalenza formale, mansioni sostanzialmente inferiori a quelle in precedenza disimpegnate, dovendo il giudice di merito accertare se le nuove mansioni siano o aderenti alla competenza professionale specifica del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantiscano al contempo lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali”. E nel caso di specie, secondo la Corte di Cassazione, i giudici di merito hanno accertato il demansionamento della lavoratrice nella concretezza delle mansioni svolte prima e dopo la sua assenza per maternità così come emerso dalle risultanze istruttorie.

Peraltro, secondo la Cassazione, non può essere accolta la tesi datoriale per la quale il demansionamento era collegato ad una generica ragione organizzativa. Infatti, se un lavoratore lamenta un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 cod. civ., è proprio su di esso che grava l’onere di provarne l’esatto adempimento “o attraverso la prova della mancanza in concreto della demansionamento ovvero attraverso la prova della sua giustificazione per il legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari (…) oppure, in base all’art. 1218 cod. civ., per impossibilità della prestazione derivante da causa a sé non imputabile ”.

In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso e condannato la società al risarcimento del danno per il demansionamento subito dalla lavoratrice al rientro dalla maternità.

Settembre 2021: NOVITA’ E RINNOVI CCNL

  1. CCNL Alimentari (Piccola industria): contratti a tempo parziale

A far data dal 1° settembre 2021, in caso di assunzione di personale a tempo parziale, i datori di lavoro sono tenuti a darne tempestiva informazione al personale già dipendente con rapporto a tempo pieno occupato in unità produttive site nello stesso ambito comunale.

A tale proposito, i datori di lavoro dovranno a prendere in considerazione le eventuali domande di trasformazione a tempo parziale nei limiti del:

  • 4% del personale in forza a tempo pieno, per le aziende fino a 50 dipendenti;
  • 8% del personale in forza a tempo pieno, per le aziende oltre 50 dipendenti.

Il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento.

  1. CCNL Legno e arredamento (Piccola industria): contributo contrattuale

Nel mese di settembre 2021 i datori di lavoro dovranno eseguire una trattenuta netta sulla retribuzione dei lavoratori dipendenti impiegati a titolo di servizio sindacale contrattuale. La trattenuta ammonta ad Euro 35,00.

  1. CCNL Metalmeccanici (Piccola industria CONFIMI): welfare

Dal 1° settembre 2021 le aziende saranno tenute a mettere a disposizione dei lavoratori strumenti di welfare del valore di Euro 150,00, elevato ad Euro 200,00 a decorrere dall’anno 2022.

L’attribuzione dei benefit in argomento sarà ripetuta annualmente con decorrenza dal 1° settembre di ciascuno anno e l’utilizzo degli stessi dovrà avvenire entro il 31 agosto di ogni anno successivo.

  1. CCNL Vetro: contributo contrattuale

Eccezion fatta per i dipendenti che hanno espresso opportuno diniego, entro il 30 settembre 2021 i datori di lavoro dovranno versare alle sigle sindacali le somme raccolte a titolo di contributo contrattuale.

  1. Erogazione di importi “una tantum”

Nel mese di settembre 2021 è prevista l’erogazione di importi a titolo di “una tantum” ai sensi dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:

  • CCNL Agenzie di viaggio e turismo (Confcommercio);
  • CCNL Agenzie immobiliari;
  • CCNL Istituzioni socioassistenziali (Misercordie).
  1. Aumento dei minimi retributivi

A decorrere dal 1° settembre 2021 è previsto un aumento dei minimi retributivi tabellari dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:

  • CCNL Alimentari (Cooperative);
  • CCNL Alimentari (Industria);
  • CCNL Chimici farmaceutici (Piccola industria);
  • CCNL Concerie (Industria);
  • CCNL Consorzi di bonifica;
  • CCNL Enti di istruzione, formazione e cultura (Confimpreseitalia);
  • CCNL Gas e acqua;
  • CCNL Gomma, plastica (Piccola industria);
  • CCNL Lavanderie e tintorie (Assosistema);
  • CCNL Oleari e margarinieri (Industria);
  • CCNL Terziario, servizi (CIFA/CONFSAL);
  • CCNL Vetro (Piccola industria).

Assunzioni con contratto di apprendistato e sgravio contributivo: chiarimenti dell’INPS (Corriere delle Paghe de Il Sole 24 Ore, 3 agosto 2021 – Roberta De Felice, Antonello Gerardi)

Con la circolare n. 87/2021, l’INPS ha fornito chiarimenti circa lo sgravio contributivo totale previsto per i contratti di apprendistato di primo livello stipulati nel biennio 2020-2021 in favore dei datori di lavoro che occupano alle proprie dipendenze un numero di addetti pari o inferiore a nove.

Prima di analizzare le disposizioni contenute nella circolare si fornisce una breve disamina di questa tipologia contrattuale e delle particolarità ad essa connesse.

L’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore (c.d. “apprendistato di primo livello”) ha l’obiettivo di integrare, in un sistema duale, l’attività lavorativa e la formazione nel quadro dei titoli di istruzione e formazione e del sistema delle qualificazioni professionali.

Tale tipologia di apprendistato, atto a garantire un maggior raccordo tra scuola e mondo del lavoro, può essere stipulato dai datori di lavoro di tutti i settori di attività, sia pubblici che privati, con soggetti giovani di età compresa tra i 15 e i 25 anni.

La durata del contratto, secondo le disposizioni dell’art. 43 del D. Lgs. 81/2015, è determinata in base alla qualifica o al titolo di studi da conseguire e non può essere superiore a tre anni (ovvero 4 anni in caso di diploma professionale quadriennale).

Tuttavia, il predetto articolo al comma 4 prevede alcuni casi in cui la durata del contratto può essere prorogato di un ulteriore anno, ossia per:

  • i lavoratori che abbiano conseguito la qualifica triennale o il diploma quadriennale, al fine di acquisire ulteriori competenze tecnico–professionali e specialistiche, utili anche per conseguire il certificato di specializzazione tecnica superiore o il diploma di maturità professionale all’esito del corso annuale integrativo;
  • i lavoratori che non abbiano positivamente conseguito la qualifica, il diploma, il certificato di specializzazione tecnica superiore o il diploma statale di maturità professionale dopo l’anno integrativo.

Continua a leggere la versione integrale pubblicata su Corriere delle Paghe de Il Sole 24 Ore.

Tempo tuta e diritto alla retribuzione nella giurisprudenza (Corriere delle Paghe de Il Sole 24 Ore, 3 agosto 2021 – Andrea Di Nino, Antonello Gerardi)

In merito al trattamento retributivo del tempo utile al lavoratore per le operazioni di vestizioni e di svestizione (c.d. “tempo tuta”), si è più volte pronunciata la giurisprudenza.

Sul tema, occorre anzitutto evidenziare come l’articolo 1, comma 2, del D.Lgs. 66/2003 definisca l’orario di lavoro come “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”.

Proprio partendo da questa definizione, la giurisprudenza ha espresso orientamenti diversi a seconda che il “tempo tuta” fosse inteso come meramente propedeutico alla prestazione di lavoro oppure come parte integrante della stessa.

Di recente la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi con la sentenza n. 15763 del 7 giugno 2021 negando ai lavoratori interessati il diritto a vedersi riconosciuta la retribuzione del “tempo tuta”. Ciò in quanto nel rapporto di lavoro subordinato il tempo necessario ad indossare l’abbigliamento di servizio costituisce tempo di lavoro “soltanto ove qualificato da eterodirezione“.  In assenza di detto requisito, sempre secondo la Cassazione, l’attività utile alla vestizione rientra “nella diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione principale del lavoro“, non dando titolo ad alcun corrispettivo autonomo.

Nel caso in questione, infatti, è stato accertato che i lavoratori non erano tenuti ad indossare gli abiti da lavoro presso i locali aziendali, bensì erano liberi di recarsi al lavoro e far ritorno a casa indossandoli. I servizi di spogliatoio, doccia e lavanderia offerti dal datore di lavoro costituivano delle mere agevolazioni riconosciute ai dipendenti per le relative necessità, senza alcun obbligo aziendale di ricorrere agli stessi, se non su base volontaria e individuale.

La stessa Corte di Cassazione, in un’altra pronuncia, ha, invece, considerato le operazioni di vestizioni come rientranti nella fase preparatoria, strettamente funzionale  alla prestazione dei lavoratori, ed in quanto tali da retribuire essendo effettivamente eterodirette (sentenza n. 19358 del 10 settembre 2010). I lavoratori, in questo caso, dovevano rispettare una precisa procedura prima dell’inizio dell’attività lavorativa; nello specifico questi erano tenuti a:

  • transitare, mediante un apposito badge, attraverso un tornello per una prima volta, accedendo allo spogliatoio aziendale;
  • indossare gli abiti di lavoro messi a disposizione da parte dell’azienda;
  • effettuare una seconda timbratura del badge prima dell’inizio della prestazione di lavoro;
  • al termine del turno, timbrare una terza volta, accedendo allo spogliatoio;
  • terminata la svestizione, timbrare una quarta volta e abbandonare i locali aziendali.

Continua a leggere la versione integrale pubblicata su Corriere delle Paghe de Il Sole 24 Ore.

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