Cassazione: licenziamento collettivo e intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15118/2021, si è espressa in merito alla eventuale applicazione della normativa in materia di licenziamento collettivo all’ipotesi di avvio da parte del datore di lavoro di molteplici procedure ex art. 7 della Legge n. 604/1966.

I fatti di causa

Nel caso di specie una lavoratrice aveva impugnato il licenziamento per motivi economici intimatole, oltre che per l’asserita insussistenza della motivazione, per omessa procedura di licenziamento collettivo prevista dall’art. 24 della Legge n. 223/1991. Ciò in quanto la società datrice di lavoro aveva avviato di diverse procedure di cui all’art. 7 della Legge n. 604/1966 nei 120 giorni successivi al licenziamento, dovute – a dire della lavoratrice– alle medesime motivazioni di quest’ultimo.

Costituendosi in giudizio, la società datrice di lavoro aveva confermato la sussistenza della motivazione addotta a fondamento del licenziamento ma – al contempo – aveva negato di aver intimato ulteriori licenziamenti per motivazioni economiche. Le numerose procedure avviate ex “articolo 7” – complessivamente pari a nove – erano in realtà tutte confluite in accordi di risoluzione consensuale. A dire della società, in sostanza, “non vi erano stati comunque cinque licenziamenti nell’arco di 120 giorni”.

“Licenziamento” ed “intenzione di licenziare”

Ancorché rigettate in primo grado, le domande della lavoratrice avevano trovato accoglimento in appello: la corte territoriale, infatti, aveva ritenuto fondata la censura sulla omessa procedura di licenziamento collettivo, colpevolmente non attuata da parte della società.

Avverso la sentenza dei giudici di merito, la società proponeva ricorso in Cassazione, ribadendo che nel lasso temporale dei 120 giorni previsti dalla Legge n. 223/1991 non era stato intimato nessun ulteriore licenziamento per motivazioni economiche.  A dire della stessa, in tale arco temporale “sarebbero avvenuti (…) solo delle dichiarazioni dell’intenzione di licenziare di cui all’art. 7 della Legge n. 604/1966”. Tali dichiarazioni non sarebbero risultate equiparabili ai “licenziamenti” a cui la Legge n. 223/1991 si riferisce espressamente e, secondo quanto argomentato da parte del datore di lavoro, la corte territoriale aveva di fatto erroneamente equiparato “l’intenzione di recedere ex art. 7 ad un vero e proprio licenziamento”.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso della società datrice di lavoro, ha sottolineato come l’espressione “intenda licenziare” di cui all’art. 24 della Legge n. 223/1991 costituisce una chiara manifestazione della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, pur subordinata all’esperimento della procedura del licenziamento collettivo istituita dal legislatore.

Al contrario, l’espressione “deve dichiarare l’intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo” contenuta dall’art. 7 della Legge n. 604/1966 è “imposta al fine di intraprendere la nuova procedura di compensazione (o conciliazione) dinanzi alla DTL, e non può quindi ritenersi di per sé un licenziamento”.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice, in quanto la società datrice di lavoro non era tenuta all’avvio procedura collettiva. L’avvio di più procedure ex “articolo 7” non è rilevante, di per sé, ai fini del calcolo del numero minimo di cinque recessi che impone ai datori di lavoro l’avvio dell’iter tipico del licenziamento collettivo. Ciò, anche se i recessi avvengono per le medesime motivazioni economiche e nell’arco dei 120 giorni, come determinato dalla Legge n. 223/1991.

Piano Spostamenti Casa–Lavoro e nomina del Mobility Manager

Il Decreto Legge n. 34 del 19 marzo 2020 (c.d. Decreto Rilancio), convertito con modificazioni nella Legge 77/2020, ha previsto che le aziende private e le pubbliche amministrazioni, con singole unità locali con più di 100 dipendenti ubicate in un capoluogo di Regione, in una Città metropolitana, in un capoluogo di Provincia ovvero in un Comune con popolazione superiore a 50.000 abitanti, sono tenute ad adottare un piano degli spostamenti casa-lavoro (c.d. PSCL) del proprio personale dipendente. Ciò al fine di favorire il decongestionamento del traffico nelle aree urbane mediante la riduzione dell’uso del mezzo di trasporto privato individuale.

Lo scorso 26 maggio è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Decreto 12 maggio 2021 del Ministro della Transizione ecologica (il “Decreto”) recante le modalità attuative delle disposizioni di cui al Decreto Rilancio avente la finalità di “consentire la riduzione strutturale e permanente dell’impatto ambientale derivante dal traffico veicolare privato nelle aree urbane e metropolitane, promuovendo la realizzazione di interventi di organizzazione e gestione della domanda di mobilità delle persone che consentano la riduzione dell’uso del veicolo privato individuale a motore negli spostamenti sistematici casa-lavoro”.

Il Decreto ha stabilito che le aziende private e le pubbliche amministrazioni, per verificare la soglia dei 100 dipendenti, dovranno tenere in considerazione anche le persone che, se pur dipendenti da altre imprese, lavorano stabilmente – con presenza quotidiana e continuativa – presso l’unità locale in virtù di contratto di appalto, servizi o di forme di distacco, comando o altro.

Il Piano degli spostamenti casa–lavoro (PSCL)

Il PSCL deve individuare le misure per orientare gli spostamenti dei dipendenti dal luogo  abitativo al luogo di lavoro verso forme di mobilità sostenibile alternative all’uso del veicolo privato a motore attraverso l’analisi degli spostamenti casa–lavoro, delle esigenze di mobilità dei lavoratori e dello stato di offerta di trasporto di persone presente sul territorio ove è ubicata l’impresa.

In tale piano devono essere definiti i benefici conseguibili con l’attuazione delle misure in esso contenute e devono esser valutati i vantaggi offerti ai dipendenti, all’impresa o pubblica amministrazione nonché alla collettività, in termini ambientali, sociali ed economici.

La redazione del PSCL deve essere completata entro il 31 dicembre di ogni anno con l’ausilio del c.d. Mobility Manager aziendale – una figura specializzata nella gestione e promozione della mobilità sostenibile nell’ambito degli spostamenti casa–lavoro del personale dipendente – e inviato al Comune di localizzazione dell’unità locale dell’impresa entro i successivi 15 giorni.

Entro 90 giorni dall’entrata in vigore del Decreto verranno divulgate le c.d. “Linee guida per la redazione e l’implementazione dei piani degli spostamenti casa-lavoro” con lo scopo di supportare le imprese nella redazione del PSCL.

Il Mobility Manager aziendale

Il Mobility Manager aziendale, in base alle disposizioni di cui all’articolo 6 del Decreto, ha il compito di:

  1. promuovere, attraverso la predisposizione del PSCL, la realizzazione di interventi per l’organizzazione e la gestione della mobilità del personale dipendente;
  2. supportare l’impresa nell’adozione del PSCL;
  3. verificare che il PSCL venga adottato e procedere al suo adeguamento in base alle indicazioni ricevute dal Comune territorialmente competente;
  4. curare i rapporti con gli enti pubblici e privati direttamente coinvolti nella gestione degli spostamenti del personale dipendente;
  5. attivare iniziative di informazione e sensibilizzazione sul tema della sostenibilità aziendale:
  6. promuovere, con il Mobility Manager di area (figura specializzata in sostenibilità aziendale nel territorio Comunale) azioni di formazione e indirizzo per incentivare i dipendenti alla mobilità ciclo-pedonale e dei servizi di trasporto pubblico.

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Il Decreto ha previsto che, in fase di prima applicazione, le aziende private e le pubbliche amministrazioni devono attuare il Piano spostamenti casa–lavoro con l’ausilio del Mobility Manager aziendale entro 180 dalla sua entrata in vigore, ovverosia entro il prossimo 23 novembre.

Agenzia delle Entrate: chiarimenti sul trattamento fiscale del rimborso al lavoratore agile per la connessione internet

L’Agenzia delle Entrate è stata nuovamente chiamata in causa su un quesito avente ad oggetto i rimborsi spese riconosciuti ai dipendenti che svolgono la propria attività in modalità agile (c.d. “smart working”). In particolare, con la risposta ad interpello n. 371 del 24 maggio 2021 sono stati forniti chiarimenti circa il trattamento fiscale da riservare alle somme corrisposte dal datore di lavoro ai propri dipendenti a titolo di rimborso dei costi di connessione internet.

Il quesito del contribuente

Nel formulare l’interpello, il datore di lavoro istante ha, innanzitutto, comunicato all’Agenzia delle Entrate la propria intenzione di implementare un programma di smart working caratterizzato dal riconoscimento a ciascun dipendente del rimborso del costo della connessione con “chiavetta internet” o dell’abbonamento al servizio internet domestico.

Il datore di lavoro ha, poi, chiesto chiarimenti in merito alla rilevanza del suddetto rimborso spese per la determinazione del:

  • reddito di lavoro dipendente (IRPEF),
  • regime di deducibilità ai fini del reddito d’impresa (IRES).

Secondo la soluzione interpretativa del contribuente, fondata sulla risoluzione n. 357/E del 7 dicembre 2007 in materia di rimborsi spese in favore del dipendente in “telelavoro”, il rimborso del costo della connessione internet riconosciuto al dipendente – essendo strumentale allo svolgimento dell’attività lavorativa – non costituisce reddito per quest’ultimo ed è integralmente deducibile dal reddito d’impresa.

Il parere dell’Agenzia delle Entrate

Nel formulare il parere sul primo quesito oggetto dell’interpello, relativo ai profili IRPEF, l’Agenzia delle Entrate rammenta che i redditi da lavoro dipendente sono disciplinati, ai sensi dell’articolo 51, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con DPR n. 917/ 1986 (TUIR), dal c.d. principio di onnicomprensività.

In forza di tale principio costituiscono reddito di lavoro dipendente «tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro».

In linea generale, salve le eccezioni previste nelle ipotesi di trasferte e trasferimenti (di cui ai commi 5 e seguenti del medesimo articolo 51), anche le somme corrisposte al lavoratore a titolo di rimborso spese costituiscono, per lo stesso, reddito di lavoro dipendente e, pertanto, sono soggette ad imposizione fiscale e previdenziale.

Fermi restando i principi generali dell’ordinamento tributario sopra esposti, l’Agenzia delle Entrate richiama la circolare del 23 dicembre 1997, n. 326 secondo la quale taluni rimborsi possono essere esclusi da imposizione fiscale. In particolare, risultano esenti i rimborsi che riguardano spese, diverse da quelle sostenute per produrre il reddito, di competenza del datore di lavoro ma anticipate dal dipendente per snellezza operativa. Ad esempio, le spese sostenute per l’acquisto di beni strumentali di piccolo valore (quali la carta della fotocopia o della stampante, le pile della calcolatrice, etc..).

In relazione alla fattispecie prospettata dal contribuente, viene evidenziato che il rimborso erogato dal datore di lavoro non è relativo al solo costo riferibile all’esclusivo interesse del datore di lavoro. L’istante rimborserebbe tutte le spese sostenute dal dipendente per l’attivazione e per i canoni di abbonamento al servizio di connessione dati internet, consentendogli un accesso pieno e illimitato a tutte le funzionalità oggi fruibili e offerte dalla tecnologia presente sul mercato.

Inoltre, la relazione tra l’utilizzo della connessione internet e l’interesse del datore di lavoro è dubbio in quanto il contratto relativo al traffico dati non è scelto e stipulato dal datore di lavoro che, limitandosi a rimborsarne i costi, rimane estraneo al rapporto negoziale instaurato con il gestore scelto dal dipendente.

L’Agenzia delle Entrate giunge, dunque, alla conclusione che il rimborso dei costi internet sostenuti dal dipendente in smart working, non essendo supportato da elementi e parametri oggettivi e documentati, non può essere escluso dalla determinazione del reddito di lavoro dipendente e, conseguentemente, rileverà fiscalmente nei confronti del dipendente ai sensi dell’articolo 51, comma 1, del TUIR.

Con riferimento ai profili IRES, l’articolo 95 del TUIR dispone che «Le spese per prestazioni di lavoro dipendente deducibili nella determinazione del reddito comprendono anche quelle sostenute in denaro o in natura a titolo di liberalità a favore dei lavoratori, salvo il disposto dell’articolo 100, comma 1».

Nel caso di specie, il rimborso riconosciuto al dipendente per l’attivazione e per i canoni di abbonamento al servizio di connessione internet risulta sostenuto per soddisfare un’esigenza del dipendente stesso, legata alle modalità di prestazione dell’attività lavorativa in smart working, che concorre ad assicurare la rispondenza della retribuzione alle esigenze del lavoratore.

In sostanza, solamente nella misura in cui l’attivazione della connessione internet rappresenta un obbligo implicito della prestazione pattuita, tramite l’accordo individuale ex Legge 81/2017, sottoscritto tra datore di lavoro e dipendente, i relativi rimborsi potranno essere deducibili ai fini IRES, ai sensi dell’articolo 95, comma 1, del TUIR, in quanto assimilabili alle “Spese per prestazioni di lavoro.

Contratti a termine nella fase emergenziale: i chiarimenti dell’INL

Le gravi ricadute sull’economia e sul regolare andamento dei rapporti di lavoro causate dall’emergenza epidemiologica da Covid-19 hanno reso necessario l’introduzione di specifiche disposizioni in materia di contratti a tempo determinato. Tali misure rappresentano principalmente strumenti di deroga alle disposizioni normative previste dal Decreto-Legge 87/2018 (C.d. Decreto Dignità) che in un’ottica di incentivazione dei contratti a tempo indeterminato, ha profondamente ridefinito i contratti a termine con l’introduzione di causali specifiche e riducendone la durata massima da 36 a 24 mesi.

Riferimenti normativi e prassi

La legge di conversione del Decreto-Legge 18/2020 (Decreto Cura Italia) ha previsto due importanti deroghe.

In primis, è stata introdotta la possibilità di stipulare contratti a termine in deroga al divieto di stipulare contratti a termine o di somministrazione, presso le unità produttive in cui vi sia un contestuale ricorso agli ammortizzatori sociali (art. 20, co. 1, lett. C) e art. 32, co. 1, lettera c), D.Lgs. 81/2015).

Contestualmente, è stata introdotta la possibilità di stipulare contratti a termine in deroga all’obbligo di lasciar intercorrere un periodo di sospensione tra un contratto a termine e il suo rinnovo presso lo stesso datore (c.d. stop&go, art. 21, co. 2, D. Lgs. 81/2015). 

Con l’obiettivo di rendere ancor meno stringente la normativa emergenziale in materia di contratti a termine in ragione dell’imprescindibile esigenza di salvaguardia dei rapporti di lavoro, il Decreto Rilancio ha introdotto la deroga all’obbligo delle causali in caso di rinnovo o proroga dei contratti a termine in corso alla data del 23 febbraio 2020, entro il 30 agosto 2020.

Il Decreto Agosto ha successivamente riformulato la deroga alla causale, prevedendo la possibilità di prorogare o rinnovare i contratti a termine in maniera acausale per un periodo massimo di dodici mesi e per una sola volta ma comunque nel rispetto del limite di durata massima complessiva di ventiquattro mesi.

Inoltre, contrariamente alla deroga introdotta dal Decreto Rilancio, non è stato più richiesto che il contratto a termine rinnovato fosse già in essere al 23 febbraio, estendendo la possibilità di proroga o rinnovo entro il 31 dicembre 2020, anche per i contratti in scadenza successivamente a tale data.

Il Decreto Sostegni poi ha esteso la finestra di accesso alle proroghe e ai rinnovi acausali dapprima fino al 31 marzo ed infine fino al 31 dicembre 2021.

Nella sequenza evolutiva della normativa derogatoria all’obbligo di causale si insinua la precisazione contenuta nell’art. 19bis del Decreto Cura Italia secondo la quale i contratti a termine possano essere prorogati e/o rinnovati anche in caso di ricorso ad ammortizzatori sociali.

Sul punto è intervenuto l’Ispettorato Nazionale del Lavoro (“INL”), con la nota n. 762 del 12 maggio 2021, precisando che la deroga riguarda gli strumenti di integrazione salariale emergenziali previsti dalla normativa Covid-19, a favore dei “lavoratori in forza alla data di entrata in vigore” del Decreto Sostegni (cfr. art. 8, D. L. 41/2021).

Pertanto, secondo la normativa attualmente in vigore, i contratti a termine possono essere prorogati o rinnovati fino al 31 dicembre 2021 senza alcun obbligo di causale per una sola volta e per una durata di 12 mesi a condizione che la durata massima complessiva non superi i 24 mesi.

Contestualmente non sussiste alcun divieto di stipulare contratti a termine presso le unità produttive in cui vi è un contestuale ricorso agli ammortizzatori sociali previsti dalla normativa Covid-19 (art. 20, co. 1, lett. C), D. Lgs. 81/2015) e, infine, non vi è l’obbligo di interruzione stop&go in caso di rinnovo (art. 21, co. 2, D. Lgs. 81/2015).

La nota dell’Ispettorato del Lavoro

A seguito di una richiesta di indicazioni da parte dell’Ispettorato territoriale di Genova, l’INL, con la nota n. 804 del 19 maggio 2021, ha ricostruito il quadro delle regole per la successione di contratti a termine.

Innanzitutto, l’INL ha evidenziato come l’art. 19, comma 2, D.Lgs. 81/2015, limiti la successione massima di contratti a termine tra le stesse parti per una durata complessiva pari a 24 mesi, ovvero al diverso limite previsto dalla contrattazione collettiva sul presupposto che i contratti intercorsi si caratterizzino per lo svolgimento di mansioni di pari livello.

Raggiunta tale soglia, le parti possono sottoscrivere un’ulteriore deroga “assistita” presso l’ITL, di durata massima pari a 12 mesi.

Viene, altresì, precisato che se i contratti sottoscritti riguardano inquadramenti di livello e di categoria legale non coincidenti, ai fini del calcolo della durata massima di 12 mesi, si determineranno diversi contatori e, anche se fosse raggiunta la soglia massima di 24 mesi complessiva fra tutti i contratti, non si determinerà la necessità di procedere con la deroga assistita presso l’ITL.

Infine, l’INL ha evidenziato come, nel momento in cui si determini una rilevante e consistente successione di contratti formalmente ancorati a inquadramenti diversi, l’ITL verificherà tali situazioni con particolare attenzione all’effettività dell’inquadramento nelle evoluzioni delle mansioni e del relativo inquadramento.

Luglio 2021: NOVITA’ E RINNOVI CCNL

  1. CCNL Cemento, Calce (Industria): previdenza complementare

Con decorrenza dal mese di luglio 2021, l’aliquota contributiva a carico del datore di lavoro per la previdenza complementare è fissata in ragione dello 0,15% della retribuzione utile per il calcolo del TFR.

L’aliquota contributiva a carico del lavoratore, invece, rimane fissata all’1,40% della retribuzione utile per il calcolo del TFR.

 

  1. CCNL Concerie (Industria): assistenza sanitaria

A decorrere dal 1° luglio 2021, le parti firmatarie del CCNL hanno inteso estendere a tutti i dipendenti del settore un fondo di assistenza sanitaria integrativa, attraverso l’adesione al fondo di assistenza sanitaria integrativa “Sanimoda”.

A tal fine, le parti hanno concordano:

  • di finanziare tale fondo con un contributo mensile, a carico delle imprese, di Euro 12,00 per 12 mensilità per ogni lavoratore non in prova, a tempo indeterminato o a tempo determinato pari o superiore a 12 mesi con decorrenza dal 13° mese;
  • che il finanziamento non riguarda le imprese che, al 1° luglio 2021, prevedono analoghe forme di assistenza sanitaria integrativa con costi pari o superiori a quello di cui sopra. In ogni caso le imprese avranno sempre facoltà di aderire al fondo Sanimoda.

 

  1. CCNL Grafici, Editoriali (Industria): contributi contrattuali

Le organizzazioni sindacali chiedono ai lavoratori non iscritti ad alcuna sigla sindacale un contributo spese di Euro 25,00 a titolo di “contributo spese trattativa rinnovo CCNL”.

Tale contributo sarà trattenuto sulle competenze del mese di luglio 2021 da parte dei datori di lavoro, salvo diniego da parte dei lavoratori coinvolti.

 

  1. CCNL Istituzioni Socio-assistenziali, Misericordie: “una tantum”

Al personale assunto prima del 1° gennaio 2020 ed ancora in servizio alla data di sottoscrizione dell’Accordo di Rinnovo (11 maggio 2021) è riconosciuto un importo a titolo di “una tantum” pari ad Euro 1.200,00, parametrati sulla categoria C3.

Tale “una tantum” è erogata in quattro tranches da Euro 300,00 ciascuna, da riparametrare per le altre categorie, la prima delle quali dovuta nel mese di luglio 2021.

Le altre tranches dovranno essere erogate, rispettivamente, nei mesi di settembre 2021, novembre 2021 e gennaio 2022.

 

  1. CCNL Lapidei (Industria): previdenza complementare

A decorrere dal 1° luglio 2021, l’aliquota contributiva a carico dell’azienda da versare in favore del “Fondo previdenza Arco” è fissata nel 2,50% della retribuzione utile per il calcolo del TFR.

 

  1. CCNL Metalmeccanici (Industria): formazione continua

Nel mese di luglio 2021 i datori di lavoro sono tenuti a versare un contributo aziendale allo scopo di finanziare i servizi per la formazione.

Tale contributo, pari ad un importo “una tantum” di Euro 1,50 per dipendente, dovrà essere versato con modalità che le parti sociali devono ancora stabilire.

Al fine del calcolo del contributo verrà considerato il personale in forza a tempo indeterminato presso il datore di lavoro al 31 dicembre 2020.

 

  1. CCNL Metalmeccanici (Piccola industria): contributi sindacali

Le aziende, mediante affissione in bacheca di apposito comunicato, da effettuarsi dal 1° luglio 2021 al successivo 31 agosto, renderanno noto ai lavoratori che, in occasione del rinnovo del CCNL, ai sindacati stipulanti (FIM, FIOM e UILM) sarà dovuto un contributo a titoli di quota associativa straordinaria pari ad Euro 35,00, che verrà trattenuto sulla retribuzione afferente al mese di novembre 2021.

Le aziende distribuiranno, insieme alle buste paga del mese di agosto 2021, un apposito modulo che consentirà al lavoratore di accettare o rifiutare la richiesta del sindacato da riconsegnare entro il 15 ottobre 2021.

 

  1. CCNL Trasporto e spedizione merci (Artigianato): “una tantum”

Ad integrale copertura del periodo di carenza contrattuale, ai soli lavoratori in servizio alla data di stipula dell’accordo di rinnovo del CCNL (18 maggio 2021) i datori di lavoro sono tenuti a corrispondere un importo forfettario lordo pro-capite di Euro 230,00, maturato in quote mensili o frazioni in relazione alla durata del rapporto nel periodo di carenza.

L’importo è erogato in tre rate di cui la prima – pari ad Euro 100,00 – entro il mese di luglio 2021.

Le ulteriori due rate, rispettivamente pari ad Euro 50,00 e ad Euro 80,00, saranno corrisposte con la retribuzione del mese di ottobre 2021 e con la retribuzione del mese di aprile 2022.

 

  1. CCNL Vetro: contributi contrattuali

Nel mese di luglio 2021 i datori di lavoro sono tenuti a distribuire ai lavoratori i moduli utili a manifestare il diniego all’assoggettamento del contributo sindacale. La disposizione riguarda, in particolare, le aziende della produzione di vetro piano, della produzione di lana e filati di vetro, delle seconde lavorazioni del vetro piano, del vetro artistico e tradizionale. Il diniego dovrà essere espresso entro il 10 agosto 2021.

L’eventuale trattenuta sarà operata nel mese di agosto 2021 e versata alle sigle entro il 30 settembre 2021.

 

  1. CCNL Legno e arredamento (Industria): previdenza complementare

Le parti stipulanti il CCNL hanno concordato di istituire un elemento promozionale del welfare previdenziale pari ad Euro 100,00 “una tantum”, da erogare in favore di tutti i lavoratori in forza con contratto a tempo indeterminato al primo giorno di calendario del mese in cui verrà effettuato il versamento.

Il conferimento avverrà secondo le seguenti modalità:

  • per i lavoratori iscritti ad Arco: conferimento da effettuare ad Arco con la contribuzione del secondo trimestre del 2021 con scadenza 20 luglio 2021;
  • per i lavoratori non iscritti a nessun fondo contrattuale: contribuzione destinata esclusivamente ad Arco, da effettuare con la contribuzione del secondo trimestre del 2021 con scadenza 20 luglio 2021;
  • per lavoratori iscritti ad altri fondi contrattuali con origine da accordi territoriali: nel mese di luglio secondo le modalità definite dai singoli fondi.

Il suddetto contributo rientra, inoltre, nel trattamento economico complessivo (TEC), definito dal CCNL.

 

  1. Aumento dei minimi retributivi

A decorrere dal 1° luglio 2021 è previsto un aumento dei minimi retributivi tabellari dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:

  • CCNL Calzaturieri (Piccola industria);
  • CCNL Chimici Farmaceutici (Industria);
  • CCNL Giocattoli, Modellismo (Piccola industria);
  • CCNL Gomma, Plastica (Industria);
  • CCNL Laterizi (Industria);
  • CCNL Occhiali (Industria);
  • CCNL Occhiali (Piccola industria);
  • CCNL Pelli e Cuoio (Piccola industria);
  • CCNL Penne, Matite e Spazzole (Piccola industria);
  • CCNL Petrolio (Industria privata);
  • CCNL Pompe Funebri;
  • CCNL Tessili (Piccola industria, Uniontessile).

Smart working e rimborsi spese: gli interventi dell’Agenzia delle Entrate (Andrea Di Nino, Sintesi – Ordine dei Consulenti del Lavoro, giugno 2021)

L’Agenzia delle Entrate, mediante diverse risposte ad interpello, si è espressa in merito al trattamento fiscale delle somme erogate a titolo di rimborso spese nei confronti dei dipendenti in smart working.

In particolare, nelle tre risposte ad interpello qui in argomento – ovverosia la n. 314/2021, la n. 328/2021 e la n. 371/2021 – l’autorità fiscale ha ripercorso lo stato attuale della normativa che fissa i criteri utili a determinare l’entità del reddito di lavoro dipendente, esaminando, a seguire, le singole fattispecie caso per caso.

Oggetto della risposta ad interpello n. 314/2021, nel dettaglio, è stato il rimborso spese forfettario devoluto dal datore di lavoro ai proprio dipendenti in smart working: detto rimborso corrisponde ad un importo di Euro 0,50 spettante a ciascun lavoratore per ogni giorno di lavoro da remoto. Tale somma – quantificata alla luce del confronto tra il risparmio giornaliero dell’impresa ed i costi quotidiani sostenuti dai lavoratori – risulta, nelle intenzioni del datore di lavoro, funzionale a “tenere indenni i dipendenti dalle spese che si troveranno a sostenere per ragioni lavorative quando opereranno presso la propria abitazione”.

Sul punto, l’Agenzia delle Entrate ha dapprima ricordato come – considerato il contenuto dell’art. 51, comma 1 del TUIR, che sancisce il principio di onnicomprensività del reddito di lavoro dipendente – “in linea generale […] tutte le somme che il datore di lavoro corrisponde al lavoratore, anche a titolo di rimborso spese, costituiscono per quest’ultimo reddito di lavoro dipendente”.

Ad ogni modo, viene rilevato che, in deroga al sopra citato principio, “possono essere esclusi da imposizione quei rimborsi che riguardando spese, diverse da quelle sostenute per produrre il reddito, di competenza del datore di lavoro, anticipate dal dipendente, ad esempio, per l’acquisto di beni strumentali di piccolo valore, quali la carta della fotocopia o della stampante, le pile della calcolatrice, etc.” (circolare dell’AE n. 326/1997). Inoltre, l’autorità fiscale ricorda che “le spese sostenute dal lavoratore e rimborsate in modo forfettario sono escluse dalla base imponibile solo nell’ipotesi in cui il legislatore abbia previsto un criterio volto a determinare la quota che, dovendosi ritenere feribili all’uso nell’interesse del datore di lavoro, può essere esclusa dall’imposizione”.

In assenza di tale determinazione operata dal legislatore, viene chiarito che i costi sostenuti da parte del lavoratore nell’esclusivo interesse del datore di lavoro debbano essere individuati sulla base di criteri “oggettivi” e “documentalmente accertabili”, così da beneficiare del regime di esenzione.

Nel caso prospettato dall’istante, l’Agenzia evidenzia che tali criteri sono effettivamente stati utilizzati da parte dell’impresa per determinare la quota di rimborso spettante a ciascun lavoratore: pertanto, al rimborso giornaliero forfettario di Euro 0,50 potrà applicarsi il regime di esenzione fiscale tipico dei rimborsi spese.

Nella risposta ad interpello n. 328/2021 viene, invece, affrontato il caso di un’impresa intenzionata a pattuire con i lavoratori in smart working un rimborso pari al 30% del costo dei consumi domestici da loro sostenuti per connessione internet, corrente elettrica, aria condizionata, riscaldamento, etc.

Per le medesime motivazioni illustrate nell’interpello precedente, l’Agenzia delle Entrate ha, questa volta, negato il proprio parere favorevole all’applicazione del regime di esenzione a tali rimborsi. Difatti, un rimborso genericamente identificato nella misura del 30% dei costi sostenuti dai lavoratori non deriva dall’applicazione di quei criteri “oggettivi e documentalmente accertabili” che devono guidare il datore di lavoro nella determinazione dell’importo dei rimborsi.

Al fine di non far concorrere il rimborso spese alla determinazione del reddito di lavoro dipendente” – illustra infatti l’Agenzia – “occorrerebbe adottare un criterio analitico che permetta di determinare per ciascuna tipologia di spesa […] la quota di costi risparmiati dalla società che, invece, sono stati sostenuti dal dipendente, in maniera tale da poter considerare la stessa quota […] di costi rimborsati a tutti i dipendenti riferibile a consumi sostenuti nell’interesse esclusivo del datore di lavoro”.

Infine, nella risposta n. 371/2021 si esamina l’interpello presentato da un’impresa intenzionata a rimborsare a ciascun dipendente in smart working il costo della connessione internet domestica, così da agevolare la resa della prestazione lavorativa da remoto.

In relazione alla fattispecie in esame, l’Agenzia delle Entrate ha osservato che “il rimborso da parte del datore di lavoro non è relativo al solo costo riferibile all’esclusivo interesse del datore di lavoro, dal momento che l’istante rimborserebbe tutte le spese sostenute dal lavoratore per l’attivazione e per i canoni di abbonamento al servizio di connessione dati internet”.

Viene inoltre rilevato come la relazione tra l’utilizzo della connessione internet e l’interesse del datore di lavoro risulti dubbio, poiché il contratto relativo al traffico dati non è scelto e stipulato dal datore di lavoro che, limitandosi a rimborsarne i costi, rimarrebbe “estraneo al rapporto negoziale instaurato con il gestore”. Dalla descrizione della fattispecie non emerge, altresì, l’entità precisa dell’importo del costo che verrebbe rimborsato da parte del datore di lavoro ai dipendenti.

Anche in quest’ultimo caso, dunque, la determinazione del rimborso risulta fallace sotto il profilo dei parametri oggettivi e documentabili, utili a consentire l’esenzione fiscale e contributiva di tali somme.

Sulla base di quanto osservato, l’Agenzia delle Entrate è pertanto risultata dell’avviso che “il costo relativo al traffico dati che la società̀ istante intende rimborsare al dipendente, non essendo supportato da elementi e parametri oggettivi e documentati, non sembra poter essere escluso dalla determinazione del reddito di lavoro dipendente e, conseguentemente, rileverà̀ fiscalmente nei confronti dei dipendenti ai sensi dell’articolo 51, comma 1, del TUIR”.

Detassazione premio di risultato: rideterminabili gli obiettivi in virtù della pandemia (Corriere delle Paghe de Il Sole 24 Ore, 3 giugno 2021 – Andrea Di Nino, Antonello Gerardi)

L’Agenzia delle Entrate, con la risposta ad interpello n. 270/2021, è tornata ad esprimersi in merito al regime fiscale di favore riservato al premio di risultato (“PDR”) corrisposto a seguito di apposito accordo sindacale e consistente, ai sensi dell’art. 1, commi da 182 a 189, della Legge 208/2015, nell’applicazione di un’aliquota del 10%, sostitutiva dell’IRPEF e delle relative addizionali regionali e comunali all’imponibile di tale premio.

I fatti oggetto di interpello, in particolare, attengono alla possibile detassazione del PDR erogato dal datore di lavoro a seguito della rideterminazione degli obiettivi aziendali dovuta alla pandemia da COVID-19.

La società istante, operante nel settore dei “giochi leciti e delle scommesse”, ha stipulato, il 29 marzo 2019, un accordo integrativo aziendale con le organizzazioni sindacali, con decorrenza dal 1° gennaio 2019 al successivo 31 dicembre, allo scopo di istituire un premio di risultato a valenza annuale.

Il PDR è stato istituito su base variabile e non determinabile a priori; inoltre, l’erogazione dello stesso è stata vincolata all’incremento dell’EBITDA (o margine operativo lordo) dell’anno oggetto di monitoraggio, da compararsi a quello dell’anno precedente.

A causa dell’emergenza sanitaria e delle conseguenti politiche di contenimento dei contagi, concretizzatesi nella chiusura di molte attività economiche, il contratto è stato oggetto di numerose proroghe, fino ad arrivare all’ultima scadenza fissata, dalle parti, al 31 dicembre 2020.

Oltre alla proroga, al fine di poter confrontare in modo omogeneo l’EBITDA del 2020 con quello del 2019, la società istante e le organizzazioni sindacali hanno convenuto di ricalcolare l’EBITDA del 2019, riducendolo in proporzione al numero dei giorni di sospensione dell’attività del 2020 dovuta al “lockdown”.

In considerazione del minore periodo di tempo di apertura dell’attività, le parti hanno, altresì, convenuto una corrispondente riduzione dell’ammontare del PDR erogabile, il cui importo lordo massimo è stato fissato in Euro 2.000,00, in luogo del precedente ammontare di Euro 2.800,00.

Date queste premesse, la società istante ha rappresentato il dubbio interpretativo attinente alla possibilità di applicare la detassazione al PDR nonostante il ricalcolo dell’EBITDA del 2019 abbia comportato una ridefinizione artificiosa dei parametri utili alla verifica del rendimento aziendale, allo scopo di rendere omogeneo il dato del margine operativo lordo del 2019 a quello del 2020.

Pertanto, come evidenziato dalla società istante, il confronto avviene, di fatto, tenendo in considerazione i periodi di chiusura forzata dell’attività economica e, di conseguenza, “non viene ad essere effettuato con riferimento all’intero anno, ma con riferimento al minor periodo in cui l’attività è stata svolta (ossia al netto dei giorni di sospensione dell’attività dei punti vendita)”.

L’Agenzia delle Entrate, nel rispondere all’interpello, effettua dapprima un excursus della normativa di settore, ricordando come la corresponsione di tali premi, nell’intenzione del legislatore, debba risultare “legata ad incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione, misurabili e verificabili” sulla base di determinati criteri. 

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