L’Agenzia delle Entrate è stata chiamata ad esprimersi a seguito dell’istanza di interpello presentata da una società operante nel mercato dell’abbigliamento ed avente come oggetto sociale la commercializzazione al dettaglio di capi d’abbigliamento, affidando a terzi la loro produzione.
Con il principale intento di rafforzare il proprio marchio e la propria presenza sul mercato, la società ritiene importante coinvolgere i propri dipendenti nel veicolare i prodotti commercializzati e, a tale fine, intraprendere una serie di iniziative nei loro confronti.
L’interpello della società istante
Nello specifico, la società istante è intenzionata ad attribuire a tutti i propri dipendenti una “tessera sconto” (o “card”) tale da permettere loro di acquistare prodotti a prezzo scontato rispetto a quello di listino. La tessera sarebbe nominativa, non cedibile, utilizzabile esclusivamente dal dipendente e non cumulabile con iniziative analoghe adottate sul mercato (ad esempio, allorquando la società adotta delle campagne di sconto nei confronti della totalità della clientela).
Lo sconto sarebbe pari a circa il 25% del prezzo di vendita finale del prodotto, con la precisazione che:
– i prodotti sarebbero venduti ai dipendenti beneficiari ad un prezzo, in ogni caso, superiore rispetto a quello che la società pratica nei confronti degli altri soggetti, nonché maggiore rispetto al costo sostenuto dalla stessa;
– in alcuni periodi dell’anno lo sconto praticato ai dipendenti potrebbe essere di eguale importo rispetto a quello di cui si possono avvantaggiare gli altri clienti.
Mediante l’istanza di interpello in esame, la società ha chiesto all’Agenzia delle Entrate se la concessione della “card” ai propri dipendenti possa rappresentare per gli stessi un compenso in natura imponibile e, come tale, soggetto ad assoggettamento fiscale.
Il parere dell’Agenzia delle Entrate
L’Agenzia delle Entrate – mediante la risposta ad interpello n. 221 del 29 marzo 2021 – ha, innanzitutto, osservato che l’art. 51, comma 1 del TUIR definisce il reddito di lavoro dipendente come l’insieme di “tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo di imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro”.
A parere dell’Agenzia tale disposizione sancisce il principio dell’onnicomprensività del reddito di lavoro dipendente, ovvero l’assoggettamento a tassazione, in generale, di tutto ciò che il lavoratore dipendente percepisce in relazione al rapporto di lavoro.
L’Agenzia ha evidenziato come questa previsione legislativa ricomprenda, oltre alla normale retribuzione, quei “vantaggi economici” che i lavoratori subordinati possono conseguire ad integrazione della stessa, come ad esempio compensi in natura consistenti in opere, servizi, prestazioni e beni, anche prodotti dallo stesso datore di lavoro.
Sul punto, l’autorità fiscale ha ricordato che il medesimo art. 51 del TUIR chiarisce, al comma 3, che “ai fini della determinazione in denaro dei valori di cui al comma 1 […] si applicano le disposizioni relative alla determinazione del valore normale dei beni e dei servizi […] Il valore normale dei generi in natura prodotti dall’azienda e ceduti ai dipendenti è determinato in misura pari al prezzo mediamente praticato dalla stessa azienda nelle cessioni al grossista”.
In particolare, la normativa fiscale prevede che “per la determinazione del valore normale si fa riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso” (art. 9 del TUIR).
In conformità a quanto sopra, l’Agenzia delle Entrate – dato l’espresso riferimento della normativa agli “sconti d’uso” – ha affermato che, nel caso in cui il datore di lavoro commercializzi e venda ai propri dipendenti beni o servizi ad un prezzo scontato, l’eventuale rilevanza reddituale deve essere considerata in ragione del principio di onnicomprensività già enunciato. Al riguardo – come chiarito dal Ministero delle Finanze con circolare 326/1997 – l’Agenzia ha illustrato come il reddito da assoggettare a tassazione sia pari al valore normale “soltanto se il bene è ceduto gratuitamente, dal momento che se, invece, per la cessione dello stesso il dipendente corrisponde delle somme, il valore da assoggettare a tassazione è pari alla differenza tra il valore normale del bene ricevuto e le somme pagate”.
L’autorità fiscale ha, altresì, osservato come il prezzo pagato dai dipendenti per i beni acquistati mediante la tessera sconto sia superiore a quello pagato dai soggetti legati al datore di lavoro, ad esempio, da accordi di franchising o di somministrazione. Pertanto, il prezzo pagato dal lavoratore dipendente non può configurarsi quale corrispettivo simbolico che “maschera” l’erogazione di una retribuzione.
Inoltre, lo sconto praticato ai dipendenti non supera quello applicato, in alcuni periodi dell’anno, agli altri clienti e non può essere cumulato con altre iniziative commerciali analoghe adottate in favore della clientela.
Conclusioni
Sulla base di tali considerazioni, l’Agenzia delle Entrate non ha ravvisto alcuno “sconto” fiscalmente rilevante, né materia fiscalmente imponibile, poiché il dipendente corrisponde il valore normale del bene al netto degli sconti d’uso. Al contrario, a detta dell’autorità fiscale, “la rilevanza fiscale dello sconto applicato sul prezzo dei capi di abbigliamento acquistati dai dipendenti della Società istante genererebbe […] una disparità di trattamento tra i clienti dell’Istante che potrebbero acquistare la merce ad un prezzo scontato e i dipendenti della medesima Società che vedrebbero tassato il vantaggio economico”.
Infine, la circostanza che lo sconto venga riconosciuto al dipendente attraverso la tessera non costituisce un “vantaggio economico” per lo stesso, in quanto le caratteristiche della “card” – ovverosia l’essere nominativa, non cedibile, utilizzabile esclusivamente dal dipendente e non cumulabile con iniziative analoghe adottate sul mercato – consentono di configurarla come un “mero strumento tecnico attraverso il quale viene consentita la fruizione dello sconto”.
In conclusione, può dirsi che la “card sconto” non costituisce un benefit che genera reddito imponibile laddove il prezzo finale pagato dagli stessi per l’acquisto del bene (o del servizio), al netto degli sconti d’uso, non sia inferiore a quello praticato sul mercato.
Fonte: Agendadigitale.eu
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5547 del 1° marzo 2021, ha affermato che al lavoratore che non può usufruire del servizio di mensa aziendale per ragioni di servizio è dovuto il buono pasto sostitutivo, in caso di orario di lavoro giornaliero eccedente le 6 ore.
I fatti di causa hanno visto un lavoratore turnista, impiegato presso un’azienda ospedaliera, proporre domanda di accertare il proprio diritto alla percezione dei buoni pasto per ogni turno lavorativo eccedente le sei ore, chiedendo altresì il risarcimento del danno al datore di lavoro.
La Corte d’Appello di Messina, in conferma di quanto determinato in primo grado, ha accolto la rivendicazione del lavoratore con sentenza in data 18 dicembre 2018, n. 906.
Tale sentenza è stata, in seguito, impugnata dal datore di lavoro, che ne ha chiesto la cassazione.
In particolare, il lavoratore svolgeva un orario di 7 ore nel turno pomeridiano e di 11 ore nel turno notturno. Egli non avrebbe potuto fruire del servizio di mensa aziendale, in quanto non poteva essere sospeso il servizio di assistenza e, inoltre, non era presente un servizio di mensa serale. Pertanto, doveva riconoscersi al lavoratore il diritto ai buoni pasto, quale elemento sostitutivo del servizio di mensa aziendale, oltre al risarcimento del danno dovutogli per aver provveduto al pasto a proprie spese.
A dire del datore di lavoro, la sentenza della corte territoriale ha identificato, in modo erroneo, il diritto alla pausa con il diritto alla mensa. Nella fattispecie in esame, infatti, tale corte aveva osservato che l’articolo 29, comma 3 del CCNL integrativo del comparto sanità del 20 settembre 2001 dovesse essere interpretato in combinato disposto con il D.Lgs. 66/2003, articolo 8. Da tale considerazione aveva pertanto concluso il diritto al buono pasto del lavoratore.
Oggetto del ricorso del datore di lavoro è stato, altresì, l’osservazione di come il lavoratore potesse “provvedere alla consumazione del pasto prima di iniziare il turno pomeridiano ed il turno notturno”. La normativa, infatti, non attribuisce il diritto alla mensa, ma disciplina “esclusivamente il diritto alla pausa, essendo comunque una possibilità quella di consumare il pasto durante la pausa”.
Sull’argomento, la Corte di Cassazione ha rilevato come l’art. 29 del CCNL 20 settembre 2001, integrativo del CCNL del 7 aprile 1999, preveda il diritto alla mensa per tutti i dipendenti “nei giorni di effettiva presenza al lavoro, in relazione alla particolare articolazione dell’orario”. Inoltre, viene osservato come le aziende, “in relazione al proprio assetto organizzativo e compatibilmente con le risorse disponibili, possono istituire mense di servizio o, in alternativa, garantire l’esercizio del diritto di mesa con modalità sostitutive. In ogni caso l’organizzazione e la gestione dei suddetti servizi, rientrano nell’autonomia gestionale delle aziende, mentre resta ferma la competenza del CCNL nella definizione delle regole in merito alla fruibilità e all’esercizio del diritto di mensa da parte dei lavoratori”.
Dalla lettura del CCNL, la Suprema Corte evince come la consumazione del pasto – ed il connesso diritto alla mensa o al buono pasto – sia prevista nell’ambito di un intervallo non lavorato. Pertanto, i giudici convengono sul fatto che “la particolare articolazione dell’orario di lavoro è quella collegata alla fruizione di un intervallo di lavoro”. Da qui il rilievo dell’articolo 8 del D.Lgs. 66/2003, secondo il quale “il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per la pausa qualora l’orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore, ai fini del recupero delle energie psicofisiche e della eventuale consumazione del pasto”.
Dal testo legislativo, dunque, la Corte ricava l’assunto secondo il quale “la consumazione del pasto è legata alla pausa di lavoro e avviene nel corso della stessa”: da tale interpretazione emerge la coerenza del collegamento tra il diritto alla mensa ex articolo 29, comma 2 del CCNL integrativo sanità del 20 settembre 2001 e il diritto alla pausa.
È effettivamente dovuto, pertanto, il buono pasto al lavoratore che svolga la propria prestazione nel corso di un orario di lavoro eccedente le sei ore, qualora impossibilitato a fruire del servizio di mensa aziendale.
Confermando la sentenza di secondo grado, la Corte di Cassazione rigetta dunque il ricorso del datore di lavoro, condannandolo al pagamento di spese e accessori di legge.
Con risposta all’interpello n. 314 del 30 aprile 2021 l’Agenzia delle Entrate ha fornito alcuni chiarimenti circa il trattamento fiscale da riservare alle somme corrisposte dal datore di lavoro a titolo di rimborso spese ai propri dipendenti che svolgono la propria attività in modalità agile (c.d. “smart working”).
Il quesito del contribuente
Nel formulare l’interpello, il datore di lavoro istante ha comunicato all’Agenzia delle Entrate la propria intenzione di:
In particolare, il contribuente ha condotto un’analisi dettagliata per verificare il proprio risparmio giornaliero e il costo giornaliero sostenuto dal lavoratore per talune spese, quali: il consumo di energia elettrica per l’utilizzo di un computer e di una lampada e i costi per l’utilizzo dei servizi igienici (acqua e materiale di consumo).
L’analisi effettuata ha portato a ritenere adeguato riconoscere un rimborso spese ad ogni dipendente di Euro 0,50 per ogni giorno di lavoro in smart working.
Alla luce di quanto precede, il contribuente ha chiesto all’Agenzia delle Entrate se sia possibile escludere tale somma giornaliera da imposizione in quanto non costituente reddito di lavoro dipendente.
Il parere dell’Agenzia delle Entrate
Nel formulare il parere sul quesito del contribuente, l’Agenzia delle Entrate fa un excursus normativo e di prassi sulla rilevanza reddituale dei rimborsi spese partendo innanzitutto dal c.d. principio di onnicomprensività del reddito di lavoro dipendente sancito dall’articolo 51, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con DPR n. 917/ 1986 (TUIR).
In forza di tale principio costituiscono reddito di lavoro dipendente «tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro. Si considerano percepiti nel periodo d’imposta anche le somme e i valori in genere, corrisposti dai datori di lavoro entro il giorno 12 del mese di gennaio del periodo d’imposta successivo a quello cui si riferiscono».
In linea generale, dunque, tutte le somme corrisposte dal datore di lavoro ai propri dipendenti, anche a titolo di rimborso spese, costituiscono reddito di lavoro dipendente e sono, quindi, soggette ad imposizione fiscale e previdenziale.
Tuttavia, l’Agenzia delle Entrate richiama la circolare del 23 dicembre 1997, n. 326 secondo la quale taluni rimborsi possono essere esclusi da imposizione fiscale: ovverosia i rimborsi che riguardano spese, diverse da quelle sostenute per produrre il reddito, di competenza del datore di lavoro ma anticipate dal dipendente. Ad esempio, le spese sostenute per l’acquisto di beni strumentali di piccolo valore (quali la carta della fotocopia o della stampante, le pile della calcolatrice, etc..).
Il principio di onnicomprensività di reddito di lavoro dipendente è stato poi ulteriormente approfondito nella risoluzione 9 settembre 2003, n. 178/E nonché nella successiva del 7 dicembre 2007, n. 357/E.
Con le richiamate risoluzioni, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che non concorrono alla formazione della base imponibile le somme che non costituiscono un arricchimento per il lavoratore (è il caso, ad esempio, degli indennizzi ricevuti a mero titolo di reintegrazione patrimoniale) e “non sono fiscalmente rilevanti, in capo al dipendente, le erogazioni effettuate per un esclusivo interesse del datore di lavoro”.
L’Agenzia delle Entrate si è, infine, soffermata sulla determinazione dell’ammontare della spesa rimborsata al dipendente in modo forfettario.
Al riguardo l’autorità fiscale, richiamando i principi espressi nella risoluzione 20 giugno 2017, n. 74/E, ha affermato che, qualora il legislatore non abbia provveduto ad indicare un criterio ai fini della determinazione della quota esclusa da imposizione (quale ad esempio, quella prevista dall’articolo 51, comma 4, lettera a) del TUIR in materia di auto aziendali concesse ad uso promiscuo ai dipendenti), i costi sostenuti dal dipendente nell’esclusivo interesse del datore di lavoro, devono essere individuati sulla base di elementi oggettivi, documentalmente accertabili. Ciò, al fine di evitare che il relativo rimborso concorra alla determinazione del reddito di lavoro dipendente.
Nell’ipotesi prospettata, il contribuente ha ben rappresentato il criterio per determinare la quota dei costi da rimborsare ai dipendenti in smart working, basandosi su parametri diretti ad individuare costi risparmiati dalla società.
In ragione di tutto quanto precede, l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto che le somme erogate dal datore di lavoro ai propri dipendenti per rimborsare i costi sostenuti attraverso le modalità rappresentate non siano imponibili ai fini IRPEF.
Ai sensi del CCNL, nel mese di giugno i datori di lavoro sono tenuti ad erogare i premi aziendali di produttività eventualmente spettanti ai lavoratori in forza che abbiano, nel corso dell’anno precedente, raggiunto i valori di incremento provvigionale pari a 2, 4 o 6 punti, aggiuntivi rispetto ai tassi di inflazione reale.
L’ammontare dei premi è determinato, nelle diverse ipotesi, dalle previsioni del CCNL e in misura fissa (c.d. “una tantum”).
Nel mese di giugno 2021 deve essere erogata ai lavoratori in forza al 18 febbraio 2021 la seconda rata dell’importo dovuto a titolo di “una tantum”, ad integrale copertura del periodo 1° gennaio 2018 – 31 dicembre 2020 ed in proporzione ai mesi di servizio prestati nel periodo di riferimento.
La prima rata è stata corrisposta nel mese di aprile 2021.
L’ammontare dell’importo “una tantum” è quantificato come da tabella seguente.
Liv./Par. |
Importo lordo “Una Tantum” (Euro) |
Q1 |
1.193,57 |
Q2 |
1.048,68 |
A |
1.014,19 |
B1 |
965,89 |
B2 |
924,50 |
B3 |
910,70 |
C1 |
890,00 |
C2 |
876,20 |
D1 |
862,40 |
D2 |
834,81 |
D3 |
821,01 |
E1 |
807,21 |
E2 |
772,71 |
E3 |
758,91 |
F1 |
703,72 |
F2 |
689,92 |
A decorrere dal mese di giugno 2021, la quota a carico del datore di lavoro per la contribuzione al fondo “Astri” è aumentata dello 0,5%.
Dal mese di giugno 2021 è dovuto l’elemento di garanzia retributiva (E.G.R.) fissato, in misura uguale per tutti i lavoratori, in Euro 240,00.
L’importo dell’E.G.R. – da intendersi omnicomprensivo di ogni incidenza su tutti gli istituti legali e contrattuali, compreso il TFR – è corrisposto interamente ai lavoratori in forza dal 1° gennaio al 31 dicembre di ogni anno precedente. Lo stesso è proporzionalmente ridotto in dodicesimi per gli altri lavoratori, considerando come mese intero la frazione di mese superiore a 15 giorni.
L’E.G.R. è, altresì, riproporzionato per i lavoratori a tempo parziale in base al minor orario contrattuale.
L’importo dovrà essere erogato ai lavoratori beneficiari nel mese di giugno di ogni anno.
Come ogni anno a decorrere dal 2019, nel mese di giugno è dovuto ai lavoratori l’importo di Euro 190,00 a titolo di elemento di garanzia retributiva.
Il trattamento viene erogato in unica soluzione ed è corrisposto pro-quota con riferimento a tanti dodicesimi quanti sono stati i mesi di servizio prestati da ciascun lavoratore, anche in modo non consecutivo, nell’anno precedente.
Dal mese di giugno 2021 è dovuto l’elemento di garanzia retributiva fissato, in misura uguale per tutti i lavoratori, al valore di Euro 240,00.
L’importo dell’E.G.R., da intendersi omnicomprensivo di ogni incidenza su tutti gli istituti legali e contrattuali, compreso il TFR, è corrisposto interamente ai lavoratori in forza dal 1° gennaio al 31 dicembre di ogni anno precedente l’erogazione e proporzionalmente ridotto in dodicesimi per gli altri lavoratori, considerando come mese intero la frazione di mese superiore a 15 giorni. È riproporzionato per i lavoratori a tempo parziale in base al minor orario contrattuale.
A decorrere dalla data del 1° giugno 2021, in aggiunta a eventuali altri benefici contrattuali o di legge, sono riconosciute 16 ore di permesso retribuito l’anno ai lavoratori:
Detti permessi possono essere utilizzati ad ore o per intere giornate e si azzerano alla fine di ogni anno legale.
Nel mese di giugno deve essere erogato l’elemento distinto della retribuzione (E.D.R.) pari all’8% della retribuzione tabellare annua vigente, a condizione che si sia già proceduto alla ridefinizione dei trattamenti integrativi aziendali in essere al 1° gennaio 2019 (data di entrata in vigore del CCNL).
Tale elemento viene considerato esclusivamente ai fini del trattamento di fine rapporto. L’E.D.R. aggiuntivo, erogato su base annua, matura da gennaio a dicembre di ogni anno e spetta in proporzione alla durata ed alla tipologia di rapporto di lavoro in essere (full time, part time).
Dal mese di giugno 2021 i lavoratori occupati nell’anno 2020 nelle società del Gruppo FS Italiane, possono utilizzare il “flexible benefit” stanziato a titolo di welfare per un importo complessivo pari ad Euro 400,00.
a) Classificazione del personale
A far data dal 1° giugno 2021 viene eliminata la 1ª categoria, nell’ambito della ridefinizione della classificazione del personale operata dal rinnovo del CCNL. I lavoratori già in forza al 31 maggio 2021 e inquadrati in 1ª categoria sono riclassificati nel livello D1 a decorrere dal 1° giugno 2021.
b) Contributi contrattuali
Con la retribuzione afferente al mese di giugno 2021, i datori di lavoro sono tenuti a trattenere la quota associativa straordinaria di Euro 35,00 dalle competenze spettanti ai lavoratori non iscritti al sindacato che non abbiano, nel frattempo, espresso il proprio diniego a norma del CCNL.
c) Elemento di garanzia retributiva
Ai lavoratori in forza al 1° gennaio di ogni anno nelle aziende prive di contrattazione di secondo livello riguardante il premio di risultato e che nel corso dell’anno precedente abbiano percepito un trattamento retributivo composto esclusivamente da importi retributivi fissati dal CCNL (lavoratori privi di superminimi collettivi o individuali, premi annui o altri importi retributivi comunque soggetti a contribuzione), è corrisposta, a titolo perequativo, con la retribuzione del mese di giugno,
d) Welfare
Nel mese di giugno i datori di lavoro sono tenuti a mettere a disposizione dei lavoratori strumenti di welfare, elencati dal CCNL in via esemplificativa, del valore di Euro 200,00 e da utilizzare entro il 31 maggio dell’anno successivo.
Ai lavoratori in forza al 19 gennaio 2021, i datori di lavoro sono tenuti ad erogare l’importo lordo di Euro 300,00 a titolo di “una tantum”.
Tale ammontare, comprensivo dei riflessi sugli istituti contrattuali diretti e indiretti, non è utile ai fini del computo del T.F.R. e viene corrisposto in due soluzioni:
Nel mese di giugno 2021, i datori di lavoro sono tenuti a mettere a disposizione un emolumento a titolo di “welfare contrattuale” pari a:
in forza che abbiano superato il periodo di prova.
Tali importi dovranno considerarsi distinti e non assorbibili rispetto alle prestazioni di welfare aziendale fruito in sostituzione del premio di risultato e saranno aggiuntivi agli eventuali benefici della stessa natura che fossero già presenti presso il datore di lavoro.
Con decorrenza dal mese di giugno 2021, l’indennità di mensa è aumentata di Euro 1,00 giornalieri e, pertanto, elevata a complessivi Euro 5,00 giornalieri.
L’indennità di mensa non è computabile in nessun istituto contrattuale e di legge ed assorbe fino a concorrenza gli importi già erogati allo stesso titolo in sede aziendale.
La stessa è erogabile anche sotto forma di “ticket restaurant”.
I termini relativi al contributo sindacale sono posticipati come segue:
I datori di lavoro sono tenuti a dare comunicazione ai lavoratori di tale contributo, fornendo agli stessi anche il modulo per il diniego, con i cedolini paga dei mesi di giugno e luglio 2021. Il diniego sarà espresso entro il 10 agosto 2021.
Ai sensi dell’Accordo del 24 novembre 2020, entro il mese di giugno 2021 i datori di lavoro possono ricorrere al TIS (trattamento di integrazione salariale), per una durata massima complessiva di ulteriori dodici settimane comprensive delle settimane ricadenti nel periodo di gennaio 2021.
Il giorno 5 giugno 2021, salvo tacito rinnovo triennale, è in scadenza il CCNL per i Dipendenti da Aziende di Commercio, Grande Distribuzione e Retail Marketing delle imprese aderenti a FEDERDAT.
A decorrere dal 1° giugno 2021 è previsto un aumento dei minimi retributivi tabellari dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8419 del 25 marzo 2021, ha stabilito che, in tema di sospensione della prescrizione, costituisce doloso occultamento del debito contributivo verso l’ente previdenziale la condotta del professionista che omette di compilare la dichiarazione dei redditi nella parte relativa ai proventi della propria attività, utile al calcolo dei contributi per la Gestione Separata INPS.
I fatti di causa
La vicenda affrontata dalla Suprema Corte riguarda un ingegnere, dipendente scolastico, che aveva svolto un incarico extra-scolastico di natura autonoma durante il 2008.
A seguito di una verifica incrociata, l’INPS constatava la sussistenza di un’omissione contributiva, richiedendo il pagamento della contribuzione dovuta per un importo pari a Euro 21.601,10, alla Gestione Separata INPS, a titolo di contributi derivanti dallo svolgimento di attività professionale di natura occasionale nell’anno 2008.
Il Tribunale di primo grado adito dall’INPS respingeva le sue pretese accogliendo l’eccezione di prescrizione avanzata dal contribuente in ragione di una notifica della cartella di pagamento avvenuta oltre il termine di cinque anni previsto dalla legge 335/1995 (articolo 3, comma 9). La sentenza di primo grado veniva confermata dalla Corte d’Appello di Torino che rigettava l’appello dell’Istituto previdenziale.
Nello specifico, la Corte territoriale evidenziava che il provvedimento di iscrizione d’ufficio alla predetta gestione, contenente la richiesta contributiva, fosse intervenuto oltre i cinque anni dalla scadenza del termine di pagamento del saldo dei contributi dovuti alla Gestione Separata per l’anno 2008 (16 giugno 2009), con conseguente estinzione per prescrizione del credito vantato dall’INPS.
La Corte d’appello respingeva, inoltre, l’argomentazione dell’INPS circa la sussistenza di un termine di sospensione della prescrizione, ai sensi dell’art. 2941, n. 8, cod civ., per non avere il contribuente provveduto a compilare, in sede di dichiarazione dei redditi, il quadro RR del Modello Unico in cui vengono dichiarati i redditi derivanti dall’esercizio occasionale di attività professionale.
Avverso la sentenza di secondo grado l’INPS ricorreva in cassazione affidandosi ad un unico motivo di ricorso.
La decisione della Corte di Cassazione
Sul caso specifico, la Corte di Cassazione ha ripreso quanto statuito in pronunce precedenti ribaltando la sentenza dei giudici di merito ed accogliendo il ricorso dell’istituto previdenziale.
In particolare, la Corte di Cassazione ha ribadito il principio secondo cui il giorno dal quale contare i termini della prescrizione estintiva coincide con la data di scadenza dei contributi e non con quella di presentazione della dichiarazione dei redditi, che costituisce una mera dichiarazione di scienza e non un presupposto del credito.
Contestualmente, la Suprema Corte ha affermato che ricorre la causa di sospensione della prescrizione ex art. 2941, n. 8, cod. civ., laddove il debitore abbia posto in essere una condotta dolosa che comporti l’impossibilità di agire del creditore, e non una mera difficoltà di accertamento del credito.
In questo senso, la stessa Corte nell’ordinanza n. 6677 del 2019 ha statuito che “in tema di sospensione della prescrizione, costituisce doloso occultamento del debito contributivo verso l’ente previdenziale, ai fini dell’applicabilità dell’art. 2941, n. 8 c.c., la condotta del professionista che ometta di compilare la dichiarazione dei redditi nella parte relativa ai proventi della propria attività, utile al calcolo dei contributi per la gestione separata (quadro RR del modello)“.
Per le ragioni esposte, la Suprema Corte ha cassato la sentenza di appello e ha accolto il ricorso dell’INPS in quanto la Corte territoriale aveva sì correttamente valutato la decorrenza del dies a quo della prescrizione quinquennale dalla data di scadenza del credito, ma, al contempo non aveva applicato la causa di sospensione prevista dall’art. 2941, n. 8 del codice civile.
L’INPS, con circolare n. 71 del 27 aprile 2021, ha fornito indicazioni circa la legislazione applicabile in caso distacco di lavoratori, recependo quanto disposto dall’Accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione tra l’Unione Europea e la Comunità europea dell’energia atomica, da una parte, e il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, dall’altra (c.d. “TCA”).
Il Protocollo sul coordinamento della sicurezza sociale contenuto nel TCA
Il TCA è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea L. 444/14 del 31 dicembre 2020 ed è entrato in vigore il 1° gennaio 2021.
L’Accordo definisce le condizioni per la collaborazione tra Paesi dell’Unione Europea e il Regno Unito nonché regolamenta determinati settori, tra cui quello della sicurezza sociale. L’Accordo è tutt’ora in attesa di essere ratificato dall’Unione Europea e, per tale motivo, le Parti contraenti hanno deciso di applicarlo in via provvisoria sino al 30 aprile 2021.
All’Accordo è allegato un esteso Protocollo sul coordinamento della sicurezza sociale avente una validità quindicennale e atto a garantire i diritti individuali delle parti contraenti anche in deroga a quanto stabilito dall’Accordo stesso. Ciò allo scopo di evitare il rischio che i lavoratori siano costretti a versare due volte i contributi di sicurezza sociale o che in un dato periodo non siano tutelati da alcuna normativa in materia.
Nello specifico, il Protocollo ammette la fattispecie del distacco prevedendo “per i lavoratori che svolgono l’attività lavorativa in uno Stato diverso da quello in cui ha sede il proprio datore di lavoro (lavoratori dipendenti) o di abituale esercizio dell’attività lavorativa (lavoratori autonomi) la possibilità di restare assoggettati alla legislazione dello Stato di invio per un periodo non superiore a 24 mesi”.
Sul punto va segnalato che dette disposizioni non devono considerarsi direttamente applicabili a tutti gli Stati dell’Unione Europea ma solamente agli Stati che hanno comunicato all’Unione l’intenzione di voler derogare alle disposizioni generali dell’Accordo (c.d. Stati di Categoria A).
La normativa, infatti, raggruppa gli Stati in tre categorie:
L’Italia, per il tramite del Ministero del Lavoro e delle politiche sociale, ha dichiarato di essersi espressa in senso favorevole alla volontà di derogare alle disposizioni generali dell’Accordo e di essere inclusa nell’elenco degli Stati di categoria A che, nei rapporti con il Regno Unito, si avvarranno per quindici anni delle norme sul distacco.
I chiarimenti dell’INPS
Alla luce di quanto sopra, l’INPS ha chiarito che “i cittadini dell’Unione Europea che esercitano un’attività di lavoro subordinato o autonomo nel Regno Unito alla fine del periodo di transizione (31 dicembre 2020) e che sono soggetti alla legislazione di uno Stato membro, mantengono detta condizione fino a che continuino a trovarsi nella fattispecie sopra descritta senza soluzione di continuità”. Viene, pertanto, confermata la validità dei formulari A1 (certificazioni di distacco) rilasciati con data iniziale precedente all’entrata in vigore del TCA e con data finale successiva al 31 dicembre 2020.
Per tali situazioni, alla scadenza del formulario A1, sarà inoltre possibile richiedere un nuovo distacco senza soluzione di continuità (in applicazione delle disposizioni del Titolo II del regolamento (CE) n. 883/2004).
Inoltre, secondo l’INPS i periodi di distacco autorizzati prima del TCA “devono essere considerati per il calcolo del periodo di distacco ininterrotto cosicché la durata complessiva del distacco ininterrotto non potrà superare il limite di 24 mesi, ricomprendendo anche i periodi ante 2021. Eventuali proroghe di distacco autorizzate in data antecedente al 1° gennaio 2021 restano valide sino a naturale scadenza”.
Tuttavia, a differenza della normativa previgente, le disposizioni contenute nel Protocollo non prevedono la possibilità di prolungare la durata di 24 mesi di distacco né tantomeno di stipulare accordi in deroga alle disposizioni generali.
Diverso, invece, è il caso dei lavoratori che esercitano attività lavorativa subordinata o autonoma in due o più Stati.
In base alle disposizioni riportate nel Protocollo, la persona che esercita abitualmente un’attività subordinata in uno o più Stati membri e nel Regno Unito è soggetta:
Sul punto l’INPS, ribandendo il Protocollo quanto già previsto in materia dai regolamenti comunitari, ha chiarito che “le Strutture competenti territoriali possono continuare a rilasciare le certificazioni in materia di legislazione applicabile anche per dette situazioni.”
Il regime fiscale di favore previsto dall’articolo 1, commi da 182 a 189, della Legge n. 208/2015 e consistente nell’applicazione di un’aliquota del 10%, sostitutiva dell’IRPEF e delle relative addizionali regionali e comunali trova applicazione nei confronti del premio di risultato (“PDR”) corrisposto ai lavoratori anche in caso di rideterminazione degli obiettivi aziendali a seguito della pandemia da COVID-19.
I fatti oggetto dell’istanza di interpello
Il datore di lavoro istante, in data 29 marzo 2019, sottoscriveva con le organizzazioni sindacali un accordo integrativo aziendale utile ad istituire un premio di risultato a valenza annuale. L’accordo decorreva dal 1° gennaio 2019 al successivo 31 dicembre.
Nel dettaglio, il premio di risultato quantificato su base variabile e non determinabile a priori, era erogabile a seguito dell’incremento dell’EBITDA (o margine operativo lordo) dell’anno oggetto di monitoraggio rispetto all’anno precedente.
In seguito, l’accordo è stato oggetto di numerose proroghe, motivate dalle politiche di contenimento dei contagi seguenti al diffondersi della pandemia, fino ad arrivare all’ultima scadenza fissata, dalle parti, al 31 dicembre 2020.
In sede di accordo di tali proroghe, le parti convenivano di applicare un metodo di ricalcolo dell’EBITDA del 2020, allo scopo di renderlo quanto più possibile omogeneo a quello del 2019: in particolare, il valore del margine operativo lordo del 2019 subiva una riduzione artificiosa proporzionata al numero dei giorni di sospensione dell’attività dell’anno 2020.
Al tempo stesso, veniva convenuta una corrispondente riduzione dell’ammontare del premio di risultato: dal precedente importo di Euro 2.800,00, l’ammontare massimo erogabile del nuovo PDR si assestava sul valore di Euro 2.000,00.
L’applicazione della detassazione al premio nel caso di specie
La società istante ha ritenuto opportuno presentare un’istanza di interpello all’Agenzia delle Entrate in merito alla possibile applicazione della detassazione al PDR a seguito della descritta rideterminazione dei parametri oggetto dell’accordo sindacale, alla luce della quale il confronto tra i distinti indicatori “non viene ad essere effettuato con riferimento all’intero anno, ma con riferimento al minor periodo in cui l’attività è stata svolta (ossia al netto dei giorni di sospensione dell’attività dei punti vendita)”.
Nella sua risposta, l’Agenzia delle Entrate ricorda come la Legge di Bilancio 2016 abbia inteso riservare ai premi di produzione una tassazione agevolata, mediante l’applicazione di un’imposta sostitutiva del 10% (articolo 1, commi da 182 a 189, della Legge n. 208/2015).
A parere dell’Agenzia, la corresponsione di tali premi, nell’intenzione del legislatore, deve essere “legata ad incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione, misurabili e verificabili” sulla base di determinati criteri.
Pertanto, il regime fiscale di favore può “applicarsi sempreché il raggiungimento degli obiettivi incrementali alla base della maturazione del premio […] avvenga successivamente alla stipula del contratto. Pertanto, i criteri di misurazione devono essere determinati con ragionevole anticipo rispetto ad una eventuale produttività futura non ancora realizzatasi“.
Le conclusioni dell’Agenzia delle Entrate
Alla luce dei chiarimenti esposti, l’autorità fiscale ritiene che la “rideterminazione del periodo congruo, dovuta all’emergenza epidemiologica da COVID-19 […] non osti all’applicazione del regime agevolato, dal momento che […] la durata del periodo di maturazione del premio è rimessa all’accordo delle parti”.
L’Agenzia delle Entrate non ravvisa elementi ostativi all’applicazione del regime fiscale agevolato al PDR così come determinato erogato nel caso di specie: in particolare, la “rideterminazione del periodo congruo, dovuta all’emergenza da COVID-19” è un dettaglio attinente al libero accordo tra le parti, che non pregiudica la ratio della detassazione. Il raggiungimento dell’obiettivo incrementale è infatti risultava infatti ancora incerto alla data di sottoscrizione dell’accordo.
La funzione incentivante della normativa non viene dunque compromessa dal ricalcolo dei valori operato dalle parti; pertanto, l’Agenzia ha confermato l’applicabilità della detassazione al PDR nel caso in esame.
Andrea Di Nino (Employment Consultant – HR Capital) e Elena Cannone (Senior Associate and Compliance Focus Team Leader – De Luca & Partners) parteciperanno in qualità di ospiti-relatori all’evento “HR: TIME TO CHANGE” organizzato dalla Camera di Commercio Italo-Germanica il prossimo 27 maggio.
LOCATION E ORARI
Giovedì 27 maggio 2021
Evento in Videoconferenza
(dalle ore 16.00 alle ore 18.30)
FOCUS
Il 2020 è stato caratterizzato dalla pandemia Covid-19 che ha costretto le aziende a riorganizzare il proprio modo di lavorare. In questo contesto lo smart working ha rappresentato una misura per contrastare il diffondersi del virus negli ambienti di lavoro.
Cosa succederà dopo la pandemia? Lo smart working da eccezione diventerà normalità? Quali sono le sfide che attendono le aziende e il suo management? Quali sono i vantaggi dello smart working?
Sono questi alcuni dei temi che Andrea Di Nino e Elena Cannone affronteranno durante l’evento.
Clicca qui per consultare il programma e per ricevere ulteriori dettagli.
Con la circolare 71 dello scorso 27 aprile, l’INPS ha recepito l’accordo sugli scambi commerciali tra l’Unione Europea, il Regno Unito e l’Irlanda del Nord pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea del 31 dicembre 2020.
In attesa che sia esaminato dal Parlamento Europeo, i Paesi aderenti hanno convenuto di applicare l’accordo in via provvisoria dal 1° gennaio fino al 30 aprile 2021.
In materia di sicurezza sociale, le disposizioni di coordinamento sono contenute nell’apposito Protocollo che costituisce parte integrante dell’accordo e che ha validità di 15 anni dall’entrata in vigore dell’accordo stesso.
In tema di distacchi, in deroga alle disposizioni generali e quale misura transitoria, il Protocollo prevede che il lavoratore distaccato rimanga soggetto alla legislazione dello Stato nel quale svolge abitualmente la propria attività per un periodo non superiore a 24 mesi.
L’INPS ha precisato che le previsioni in tema di distacco indicate nel Protocollo trovano applicazione solo per gli Stati che avranno comunicato all’UE l’intenzione di voler derogare alle disposizioni generali.
L’articolo 2125 c.c. definisce il patto di non concorrenza come l’accordo atto a limitare “lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto”. In quanto tale, il patto si configura come strumento utile a regolare – di comune accordo tra le parti – aspetti fondamentali attinenti alla cessazione del rapporto di lavoro in determinate circostanze (ad esempio, in caso di elevata professionalità e specializzazione del lavoratore). In particolare, il patto in argomento limita la facoltà del lavoratore di svolgere attività professionali in concorrenza con il precedente datore di lavoro per un dato periodo di tempo successivo alla cessazione del rapporto, prolungando di fatto gli obblighi di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c. imposti in capo al lavoratore durante lo svolgimento del rapporto di lavoro.
La giurisprudenza, in merito, ha illustrato come “le clausole di non concorrenza sono finalizzate a salvaguardare l’imprenditore da qualsiasi esportazione presso imprese concorrenti del patrimonio immateriale dell’azienda, nei suoi elementi interni (organizzazione tecnica e amministrativa, metodi ed i processi di lavoro, etc.) ed esterni (avviamento, clientela, etc.), trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo successo rispetto alle imprese concorrenti” (Cass. n. 24662/2014).
Il predetto articolo 2125 c.c. enuclea le caratteristiche del patto di non concorrenza in mancanza delle quali il patto deve intendersi nullo e privo di efficacia per le parti, ovverosia:
Continua a leggere la versione integrale dell’articolo su Corriere delle Paghe – Guida al Lavoro de Il Sole 24 Ore.
Il 5 febbraio 2021 è stata siglata l’ipotesi di accordo di rinnovo del CCNL Metalmeccanica Industria, approvata dalle assemblee dei lavoratori così come comunicato dai tre sindacati di categoria lo scorso 16 aprile.
Le parti sindacali e datoriali, in sede di rinnovo, hanno dato una svolta alla contrattazione collettiva del settore, rinnovando profondamente alcuni istituti specifici.
In particolare, sono stati rivisti la classificazione del personale e l’apprendistato professionalizzante, così come i minimi retributivi e il welfare aziendale.
Le principali novità riguardano sicuramente la classificazione del personale e l’apprendistato professionalizzante.
Nel dettaglio, si prevede il passaggio da una classificazione basate sulle “categorie” ad una basata sui “livelli”, con soppressione della “categoria 1”. I lavoratori dovranno essere riclassificati nei nuovi livelli entro il mese di maggio 2021.
L’apprendistato professionalizzante, finora caratterizzato dal sistema del sotto-inquadramento, viene ridefinito sulla base di una progressione retributiva graduale dell’apprendista durante il percorso formativo.