Congedo Genitori 2021: i chiarimenti dell’INPS

Con la circolare n. 63 dello scorso 14 aprile, l’INPS ha fornito i primi chiarimenti in merito al diritto alla fruizione del congedo introdotto dal decreto legge 30/2021 a favore dei genitori lavoratori del settore privato.

Il congedo, coperto da contribuzione figurativa, è rivolto ai lavoratori con figli conviventi minori di anni 14 o con disabilità grave affetti da Covid o in quarantena da contatto o, eventualmente, con attività didattica in presenza sospesa.

Per i periodi di astensione fruiti è riconosciuta dall’INPS un’indennità pari al 50% della retribuzione.

Il congedo può essere fruito nelle sole ipotesi in cui la prestazione lavorativa non possa essere svolta in modalità agile e in alternativa all’altro genitore convivente, o anche non convivente in caso di figlio con disabilità grave.

Inoltre, per i genitori con figli di età compresa tra i 14 ed i 16 anni, è previsto il diritto di astenersi dal lavoro senza però corresponsione di retribuzione o indennità, né riconoscimento di contribuzione figurativa, con divieto di licenziamento e diritto alla conservazione del posto di lavoro.

Accordo sindacale di demansionamento: il potere di licenziamento è limitato (Andrea Di Nino, Sintesi – Ordine dei Consulenti del Lavoro, aprile 2021)

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 701 del 18 gennaio 2021, si è espressa in merito al potere di licenziamento esercitabile da parte del datore di lavoro, evidenziando come lo stesso risulti limitato qualora il lavoratore abbia, in precedenza, aderito ad un accordo sindacale nel quale richiede di essere adibito ad una mansione inferiore allo scopo di salvaguardare il posto di lavoro.

I fatti di causa hanno visto un lavoratore licenziato a seguito dell’esito di una procedura di mobilità, ai sensi della Legge n. 223/1991. In particolare, il lavoratore – inquadrato nella categoria di impiegato – era stato collocato in CIGS per soppressione della funzione cui era addetto, manifestando in seguito la propria disponibilità a svolgere mansioni di livello inferiore, anche con diminuzione della retribuzione percepita.

Tale disponibilità veniva respinta da parte del datore di lavoro, avviando la mobilità per 15 dipendenti e, in seguito, stipulando l’accordo sindacale utile a definirne i criteri. Da ultimo, il lavoratore veniva licenziato con efficacia differita al termine del periodo di cassa integrazione.

A seguito dell’impugnazione del licenziamento da parte del dipendente, la stessa veniva respinta nei primi due gradi di giudizio, in cui si riteneva come dalla disponibilità dello stesso allo svolgimento di mansioni inferiori non scaturisse alcun obbligo per il datore di lavoro circa l’accoglimento dell’istanza, bensì solo la possibilità di giungere ad un accordo.

La Suprema Corte, ricevuto il ricorso del lavoratore, ha osservato come una clausola dell’accordo sindacale sottoscritto presso il datore di lavoro abbia previsto – in applicazione del comma 11 dell’art. 4 della Legge n. 223/1991 – che “gli accordi stipulati nel corso delle procedure di cui al presente articolo, che prevedano il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori ritenuti eccedenti, possono stabilire […] la loro assegnazione a mansioni diverse da quelle svolte”.

La clausola dell’accordo prevedeva dunque la possibilità per i dipendenti in esubero di chiedere di essere adibiti a mansioni e qualifiche inferiori, onde evitare il licenziamento. A dire della Corte di Cassazione, la ratio della norma di cui l’accordo sindacale è espressione impone un vincolo obbligatorio al datore di lavoro, trattandosi per un verso di un rimedio per evitare il licenziamento e, per l’altro, di una deroga non vincolante per i lavoratori, i quali potrebbero rifiutare la dequalificazione.

A prevalere è, infatti, “l’interesse del lavoratore a mantenere il posto di lavoro”: in tal senso, la Suprema Corte osserva inoltre come gli accordi sindacali che stabiliscono i criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità “non appartengono alla categoria dei contratti collettivi normativi, con la conseguenza che gli stessi incidono direttamente non già sulla posizione del lavoratore, ma su quella del datore di lavoro, il quale nella scelta dei dipendenti da porre in mobilità deve applicare i criteri concordati”.

L’accordo assume dunque natura vincolante, essendo preordinato alla tutela dell’interesse generale e della salvaguardia dei livelli occupazionali.

I giudici di legittimità, pertanto, accolgono il ricorso del lavoratore, giungendo alla conclusione che l’interesse primario tutelato dall’art. 4 comma 11 della Legge n. 223/1991 sia quella della conservazione del posto di lavoro e non quella della stabilità delle condizioni economiche contrattuali.

Fonte: Sintesi

Lavoratori impatriati: modalità di esercizio dell’opzione ai fini della proroga del regime agevolato

L’Agenzia delle Entrate, con il provvedimento n. 60353 del 3 marzo 2021, ha fornito le modalità operative con cui i lavoratori, dipendenti e autonomi, beneficiari del regime speciale per i c.d. impatriati, potranno optare per la proroga dell’agevolazione fiscale, ai sensi dell’articolo 1, comma 50, della Legge 178 del 30 dicembre 2020 (la “Legge di Bilancio 2021”), per ulteriori cinque anni.

Il quadro normativo

L’articolo 1, comma 50, della Legge di Bilancio 2021 – integrando l’articolo 5, del D.L. n. 34/2019 – ha previsto la possibilità per lavoratori impatriati di optare per la proroga dell’agevolazione fiscale per ulteriori cinque periodi d’imposta. Per tutta la durata della proroga i redditi di lavoro dipendente (o a questi assimilati) e i redditi da lavoro autonomo saranno sottoposti, come vedremo meglio nel prosieguo, a tassazione ridotta.

Tale facoltà di opzione è riconosciuta, a decorrere dal 1° gennaio 2021, ai lavoratori già iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE), o che siano stati cittadini d Stati membri dell’Unione Europea. Questi devono (i) aver trasferito la residenza fiscale in Italia prima del 30 aprile 2019 e (ii) al 31 dicembre 2019 risultare beneficiari del regime impositivo speciale previsto dall’articolo 16 del D.Lgs. n. 147/2015 per i lavoratori impatriati.

Ai sensi della richiamata disposizione, la possibilità di godere del regime fiscale agevolato in esame spetta ai lavoratori che:

  • abbiano almeno un figlio minorenne o a carico, anche in affido preadottivo, oppure
  • diventino proprietari di almeno un’unità immobiliare di tipo residenziale in Italia, successivamente al trasferimento in Italia o nel corso dei dodici mesi che hanno preceduto il trasferimento della residenza fiscale in Italia. Al riguardo, la norma precisa che l’acquisto rileva anche quando sia perfezionato direttamente dal lavoratore oppure dal coniuge, dal convivente ovvero dai figli, anche in comproprietà.

In entrambe le fattispecie elencate, il reddito da lavoro dipendente (anche a questi assimilati) o autonomo prodotto in Italia risulterà imponibile soltanto per il 50% del suo ammontare. L’imponibilità è ulteriormente ridotta al 10% qualora il lavoratore abbia almeno tre figli minorenni o a carico.

L’opzione, fermo restando il rispetto dei suddetti requisiti soggettivi, potrà essere esercitata a condizione che il lavoratore provveda al versamento di un importo pari al:

  • 10% dell’ammontare dei redditi di lavoro dipendente (o assimilati) e di lavoro autonomo prodotti in Italia e sottoposti al regime fiscale di favore percepiti nel periodo d’imposta precedente al periodo nel corso del quale è esercitata l’opzione. Resta fermo che all’atto d’esercizio (formale) dell’opzione il lavoratore interessato deve (a) avere almeno un figlio minorenne, anche in affido preadottivo ovvero (b) essere divenuto proprietario di almeno un’unità immobiliare di tipo residenziale in Italia successivamente al trasferimento della residenza o nel corso dei dodici mesi precedenti ovvero ne sia divenuto proprietario entro il diciottesimo mese dalla data d’esercizio dell’opzione;
  • 5% dei redditi di lavoro dipendente (o assimilati) ovvero di lavoro autonomo prodotti in Italia e soggetti al regime impositivo speciale relativi al periodo d’imposta precedente a quello di esercizio dell’opzione. Ciò, se al momento dell’esercizio dell’opzione il lavoratore interessato abbia almeno tre figli minorenni, anche in affido preadottivo, e diventi (o sia già divenuto) proprietario di almeno un’unità immobiliare di tipo residenziale in Italia, successivamente al trasferimento della residenza fiscale o nei dodici mesi precedenti o ancora ne divenga proprietario entro il diciottesimo mese dalla data d’esercizio dell’opzione (il titolo di proprietà dell’unità immobiliare può essere acquistato secondo le modalità indicate alla precedente lettera b).

La Legge di Bilancio 2021 ha subordinato la definizione delle modalità di esercizio dell’opzione in argomento ad un provvedimento dell’Agenzia delle Entrate che è stato emanato lo scorso 3 marzo.

Gli adempimenti del lavoratore e del sostituto d’imposta

In ottemperanza alle disposizioni della Legge di Bilancio 2021, il provvedimento in commento descrive gli adempimenti che devono essere posti in essere dal lavoratore (in particolare, dal lavoratore dipendente) e dal sostituto d’imposta.

In primo luogo, il lavoratore in possesso di tutti i requisiti per esercitare l’opzione deve versare l’importo di cui al precedente paragrafo:

  • mediante il modello di pagamento F24, senza la possibilità di avvalersi della compensazione prevista dall’articolo 17 del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241. Al riguardo, l’Agenzia delle Entrate precisa che, con successiva risoluzione, verrà istituito il codice tributo da indicare in fase di versamento e saranno impartite le istruzioni per la compilazione del modello F24;
  • entro il 30 giugno dell’anno successivo a quello di conclusione del primo periodo di fruizione dell’agevolazione. I soggetti per cui tale periodo si è concluso il 31 dicembre 2020, effettuano il versamento entro 180 giorni dalla pubblicazione del provvedimento (ovverosia entro il 30 agosto 2021).

In aggiunta a quanto precede, i lavoratori dipendenti che intendono beneficiare della proroga del regime agevolato dovranno comunicare al datore di lavoro di aver esercitato l’opzione presentando una richiesta debitamente sottoscritta e recante:

  • il nome, il cognome e la data di nascita;
  • il codice fiscale;
  • l’indicazione che, prima del 30 aprile 2019, la residenza è stata trasferita in Italia ai sensi dell’articolo 2, comma 2, del TUIR;
  • l’indicazione della permanenza della residenza in Italia alla data di presentazione della richiesta;
  • l’impegno a comunicare tempestivamente ogni variazione della residenza o del domicilio, rilevante per l’applicazione del beneficio medesimo da parte del datore di lavoro;
  • i dati identificativi dell’unità immobiliare di tipo residenziale acquistata direttamente dal lavoratore ovvero dal coniuge, dal convivente o dai figli, anche in comproprietà e la relativa data di acquisto ovvero l’impegno a comunicare tali dati entro diciotto mesi dalla data di esercizio dell’opzione, se ne diviene proprietario entro tale ultimo termine;
  • il numero e la data di nascita dei figli minorenni, anche in affido preadottivo, alla data di effettuazione del versamento;
  • l’anno di prima fruizione del regime speciale per i lavoratori impatriati;
  • l’ammontare dei redditi di lavoro dipendente e di lavoro autonomo prodotti in Italia oggetto dell’agevolazione di cui all’articolo 16 del D.Lgs. n. 147/2015, relativi al periodo d’imposta precedente a quello dell’esercizio dell’opzione;
  • gli estremi del versamento effettuato secondo le modalità previste dal provvedimento in commento dell’Agenza delle Entrate.

Il datore di lavoro, a seguito dell’opzione della proroga del regime agevolato effettuata dal lavoratore dipendente, opererà le ritenute fiscali sulle minori somme e sui valori imponibili corrisposti dal periodo di paga successivo al ricevimento della richiesta sottoscritta dal lavoratore dipendente.

A fine anno o alla cessazione del rapporto di lavoro, il medesimo datore di lavoro dovrà effettuare il conguaglio tra le ritenute operate e l’imposta dovuta sull’ammontare complessivo degli emolumenti, ridotto in conformità all’agevolazione fiscale di cui è beneficiario il dipendente “impatriato”, corrisposto a partire dal 1° gennaio dell’anno di riferimento.

 

Contratto di espansione: le novità introdotte dalla Legge di Bilancio 2021

La Legge n. 178/2020 (c.d. “Legge di Bilancio 2021”) ha revisionato il regime del c.d. “contratto di espansione” nell’ottica di favorirne il ricorso in costanza dell’attuale stato di emergenza sanitaria.

Tale istituto è stato introdotto dal D. Lgs. n. 148/2015 e in seguito rivisto dal D. L. n. 34/2019 (c.d. “Decreto crescita”) quale ammortizzatore sociale sostitutivo del “contratto di solidarietà espansiva”, dismesso dal 30 giugno 2019.

Funzione e requisiti

Il contratto di espansione è stato introdotto in via sperimentale per il solo biennio 2019 – 2020 ed è rivolto alle imprese con più di 1.000 dipendenti (intesi come media nei 6 mesi precedenti nell’ambito dell’impresa), interessate da fasi di reindustrializzazione e riorganizzazione recanti la revisioni dei processi aziendali e, conseguentemente, l’adeguamento delle competenze professionali dei lavoratori, prevedendo l’assunzione di nuove professionalità.

Il contratto di espansione intende sostenere l’innovazione tecnologica all’interno del ciclo produttivo e il datore di lavoro che intende avvalersene procede all’inserimento nell’organico aziendale di nuovi lavoratori e, contestualmente,

  1. all’accompagnamento a pensione dei lavoratori a cui manchino non più di 60 mesi (5 anni) “all’uscita” con pensione di vecchiaia o anticipata, previo loro esplicito consenso in forma scritta, e/o
  2. ad una riduzione dell’orario di lavoro mediamente non superiore al 30% per i lavoratori non in possesso di tale requisito, con contestuale attivazione della cassa integrazione guadagni straordinaria (“CIGS”).

A livello generale, nel contratto di espansione il datore di lavoro è tenuto a dare evidenza dei seguenti dettagli:

  • il numero dei lavoratori da assumere e l’indicazione dei relativi profili professionali compatibili con i piani di reindustrializzazione o riorganizzazione, nonché le relative tipologie contrattuali;
  • la programmazione temporale delle assunzioni;
  • l’indicazione della durata a tempo indeterminato dei contratti di lavoro, compreso il contratto di apprendistato professionalizzante;
  • relativamente alle professionalità in organico, la riduzione complessiva media dell’orario di lavoro e il numero dei lavoratori interessati, nonché il numero dei lavoratori anziani da accompagnare alla pensione. Ai fini della stipula del contratto, il Ministero del lavoro è tenuto a verificare il progetto di formazione e riqualificazione nonché il numero delle assunzioni previste.

Le novità apportate dalla Legge di bilancio 2021

La struttura del contratto di espansione è stata ulteriormente rivisitata ad opera del comma 349 dell’articolo 1 della Legge di bilancio 2021, intervenuto modificando l’articolo 41 del D. Lgs. n. 148/2015.

Nel dettaglio, è stata estesa per tutto il 2021 la possibilità per i datori di lavoro di avviare una procedura di consultazione finalizzata alla stipula del contratto di espansione con il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali e con le associazioni sindacali. Come detto, originariamente, tale possibilità era prevista in via sperimentale esclusivamente per gli anni 2019 e 2020.

Esclusivamente per il 2021, il limite minimo di unità lavorative in organico dei datori di lavoro beneficiari è abbassato ad almeno 500 unità, in luogo delle almeno 1.000 unità previste in prima battuta dalla norma, calcolate complessivamente nelle ipotesi di aggregazione di imprese stabile con un’unica finalità produttiva o di servizi. Tale soglia dimensionale è ulteriormente ridotta a 250 unità limitatamente ai casi di ricorso al contratto di espansione attivato nell’ambito dell’accompagnamento a pensione.

In detta ultima fattispecie, la norma prevede che il datore di lavoro debba riconoscere, a fronte della risoluzione del rapporto di lavoro e fino al raggiungimento della prima decorrenza utile del trattamento pensionistico, un’indennità mensile commisurata al trattamento pensionistico lordo maturato dal lavoratore al momento della cessazione del rapporto di lavoro, così come determinato dall’INPS. Qualora la prima decorrenza utile della pensione sia quella prevista per la pensione anticipata, il datore di lavoro sarà, altresì, tenuto a versare i contributi previdenziali utili al conseguimento del diritto. Il datore di lavoro, allo scopo di dare attuazione al contratto di espansione, è obbligato a

  • presentare apposita domanda all’INPS accompagnata dalla presentazione di una fideiussione bancaria a garanzia della solvibilità in relazione agli obblighi assunti e a
  • versare mensilmente all’INPS la c.d. “provvista” per la prestazione, nonché la relativa contribuzione figurativa, ove dovuta. In assenza del versamento mensile della “provvista”, l’INPS non erogherà le prestazioni.

Ispettorato Nazionale del Lavoro: indicazioni in merito all’interdizione post partum

Con la nota n. 553 del 2 aprile 2021, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) ha fornito indicazioni in merito all’applicazione delle norme a tutela delle lavoratrici madri e della prole contenute negli articoli 6, 7 e 17 del D.Lgs. 151/2001 (il “Decreto”). Secondo detti articoli le lavoratrici madri, durante la gravidanza e nei sette mesi successivi, non possono essere adibite al «trasporto e al sollevamento di pesi, nonché ai lavori pericolosi, faticosi ed insalubri», indicati negli allegati A e B al Decreto.

Normativa di riferimento

Le disposizioni previste dagli articoli 6, 7 e 17 del Decreto sono preposte alla tutela della salute della lavoratrice madre e della prole attraverso l’adozione di misure di protezione in relazione alle condizioni di lavoro e alle mansioni alle quali la lavoratrice stessa è adibita.

Nello specifico, l’articolo 6 del Decreto abilita gli organi di vigilanza ad autorizzare l’interdizione dal lavoro laddove non sia possibile adibire la lavoratrice ad altre mansioni.

L’art. 7, comma 1, del Decreto dispone il divieto di adibire la lavoratrice al trasporto e al sollevamento di pesi, nonché a lavori pericolosi, faticosi ed insalubri elencati specificamente negli allegati A e B del Decreto stesso.

L’articolo 17, infine, abilita l’INL ad autorizzare l’interdizione dal lavoro quando le condizioni di lavoro o ambientali sono ritenute pregiudizievoli alla salute della donna e del bambino: tale precisazione è stata addotta dal Ministero del Lavoro con la nota prot. n. 37/0011588 del 20 luglio 2015.

Ai fini dell’adozione dei provvedimenti di tutela, a prescindere dalla valutazione del rischio precisata nel DVR (Documento Valutazione dei Rischi), si ritiene sufficiente la mera constatazione della adibizione della lavoratrice madre a mansioni di trasporto e al sollevamento di pesi.

In tal senso propende sia l’interpretazione della giurisprudenza di merito, con l’ordinanza del Tribunale di Perugia del 20 novembre 2020, sia il Ministero del Lavoro, con l’interpello n. 28/2008 e la nota n.37 del 29 aprile 2013.

Nello specifico l’interpello n. 28/2008 ha chiarito che ai sensi del primo comma dell’art. 7 del menzionato D.Lgs. n. 151/2001 vige il divieto generalizzato di adibire le (…) lavoratrici al trasporto ed al sollevamento pesi, ed inoltre la valutazione sostanziale e diretta delle condizioni di lavoro e dell’organizzazione aziendale svolta dagli organi di vigilanza può prescindere dal documento di valutazione dei rischi che comunque l’Ispettore ha facoltà di esaminare”.

Invece, nella nota prot. n. 37/0007553 del 29 aprile 2013, il Ministero del Lavoro ha precisato come “la valutazione del rischio fatta dal datore di lavoro costituisce il presupposto sulla base del quale deve essere emesso il provvedimento di interdizione fuori dai casi di cui all’articolo 7, commi 1 e 2”.

Pertanto, l’adibizione della lavoratrice al sollevamento dei pesi, qualora il relativo rischio non sia stato espressamente valutato nel DVR, costituirebbe comunque condizione sufficiente per il riconoscimento della sua tutela. Ciò, con la conseguente emanazione del provvedimento di interdizione da parte dell’amministrazione competente, ferma restando una valutazione circa l’impossibilità di adibizione ad altre mansioni.

I chiarimenti dell’INL

L’esigenza da parte dell’INL di redigere la nota in commento deriva proprio dalla sopra citata ordinanza del Tribunale di Perugia. Nello specifico, l’INL ha precisato come, ai fini dell’erogazione dell’indennità a favore della lavoratrice interdetta, un provvedimento di interdizione a seguito di pronuncia giurisdizionale dichiarativa del diritto all’astensione non sia sufficiente.

Sarà sempre necessario che l’Ispettorato territorialmente competente emetta il relativo provvedimento amministrativo di interdizione a cui, poi, dovrà far seguito la richiesta della lavoratrice nei confronti dell’INPS circa l’erogazione della relativa indennità sostitutiva (cfr. art. 1, D.L. 663/1969, convertito in Legge 33/1980).

Con la nota in commento, l’INL – richiamando la circolare INPS n. 69/2016 – ha inoltre precisato, in riferimento alle ipotesi in cui il parto avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta, che i giorni antecedenti al parto non goduti a titolo di astensione obbligatoria si aggiungono al periodo di congedo obbligatorio di maternità da fruire dopo il parto.

Da ciò ne deriva che il provvedimento di interdizione adottato dall’Ispettorato territorialmente competente dovrà indicare la data effettiva del parto e far decorrere da essa i sette mesi di interdizione post partum aggiungendo, ai predetti sette mesi, i giorni non goduti a causa del parto prematuro e avendo cura di richiamare in proposito la circolare INPS sopra riportata.

Licenziamento economico: obbligo di reintegra in caso di manifesta insussistenza del fatto

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 59 depositata il 1° aprile 2021, ha dichiarato incostituzionale l’art. 18, comma 7, secondo periodo, della Legge 300/1970 (c.d. Statuto dei Lavoratori), così come modificato dall’art. 1, comma 42, lett. b) della Legge 92/2012 (c.d. Legge Fornero), poiché lesivo del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione.

I fatti di causa

Con ordinanza del 7 febbraio 2020, il Tribunale di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 7, secondo periodo della L. 300/1970 nella “parte in cui prevede che, in ipotesi in cui il giudice accerti la manifesta insussistenza di un fatto posto a fondamento di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, “possa” e non “debba” applicare la tutela di cui al comma 4 dell’art. 18 (reintegra)”.

Secondo il Tribunale di Ravenna, il carattere facoltativo della reintegra di un lavoratore illegittimamente licenziato per giustificato motivo oggettivo lede il principio di uguaglianza (art. 3 cost.) in quanto “(…) determinerebbe un’arbitraria disparità di trattamento tra situazioni del tutto identiche, ossia il licenziamento per giusta causa e il licenziamento per giustificato motivo oggettivo dei quali sia accertata in giudizio l’infondatezza”.

Pertanto, a parere del Tribunale, la Corte Costituzionale dovrebbe ripristinare, in ordine all’obbligatorietà della reintegrazione, un trattamento omogeneo tra le due tipologie di licenziamento. Secondo il Tribunale di Ravenna, anche nel caso di licenziamento per motivi economici la reintegra dovrebbe essere obbligatoria, una volta che venga accertata l’insussistenza manifesta del fatto, e non lasciare la decisione ad una valutazione discrezionale del giudice.

La decisione della Corte costituzionale

La Corte costituzionale, nell’aderire alla tesi del Tribunale di Ravenna, precisa che il “carattere meramente facoltativo della reintegrazione rivela, anzitutto, una disarmonia interna al peculiare sistema delineato dalla legge 92/2012 e viola il principio di eguaglianza”.

In un sistema che, per consapevole scelta del legislatore, attribuisce rilievo al presupposto comune dell’insussistenza del fatto e a questo presupposto collega l’applicabilità della tutela reintegratoria, “si rivela disarmonico e lesivo del principio di eguaglianza il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti economici, a fronte di una inconsistenza manifesta della giustificazione addotta rispetto e del ricorrere di un vizio di più accentuata gravità rispetto all’insussistenza pura e semplice del fatto”.

La Consulta prosegue richiamando la giurisprudenza maggioritaria formatasi in materia che riconosce il potere discrezionale del giudice di negare la reintegra in caso di manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo se “la tutela reitegratoria sia, al momento di adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente incompatibile con la struttura organizzativa” dell’impresa.

Sul punto la Corte Costituzionale si è espressa ritenendo “manifestatamente irragionevole la scelta di riconnettere a fattori contingenti, e comunque determinati dalle scelte del responsabile dell’illecito (l’imprenditore), conseguenze di notevole portata che si riverberano sull’alternativa fra una più incisiva tutela reintegratoria o una meramente indennitaria”.

◊◊◊◊

Alla luce delle predette considerazioni la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 18, comma 7, secondo periodo, della L. 300/70, così come modificato dalla Riforma Fornero, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerta la manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento economico, “può altresì applicare” – invece che “applica altresì” – la tutela reintegra.

Maggio 2021: NOVITA’ E RINNOVI CCNL

  1. CCNL Metalmeccanici (Industria): contributo associativo a seguito della formalizzazione dell’ipotesi di rinnovo

L’ipotesi di Accordo di Rinnovo del CCNL stipulato il 5 febbraio 2021 dispone che le aziende, mediante affissione in bacheca da effettuarsi dal 29 marzo e al 15 maggio 2021, comunichino ai lavoratori non iscritti a FIM, FIOM e UILM la richiesta di una quota associativa straordinaria di Euro 35,00 da trattenere sulla retribuzione afferente al mese di giugno 2021. Richiesta motivata dal rinnovo contrattuale.

Le aziende dovranno distribuire un apposito modulo che consenta al lavoratore di accettare o rifiutare la richiesta in questione da riconsegnarsi alle stesse entro il 15 maggio 2021.

 

  1. CCNL Case di cura private – personale medico (ARIS): una tantum

Il CCNL ha previsto in favore dei dirigenti medici dipendenti delle strutture sanitarie, socio-sanitarie e socio-assistenziali di diritto privato aderenti ad ARIS, assunti prima del 1° gennaio 2020 ed ancora in servizio alla data del successivo 7 ottobre, il riconoscimento di un importo netto a titolo di una tantum pari ad Euro 2.500,00. Questo importo ha la finalità di riparare il disagio derivante dalla ritardata sottoscrizione del CCNL stesso.

L’importo verrà corrisposto in 5 tranches di pari importo, con le retribuzioni dal mese di gennaio 2021 al mese di maggio 2021.

 

  1. CCNL Imprese portuali: una tantum

Ai lavoratori in servizio al 24 febbraio 2021 deve essere riconosciuto un importo lordo onnicomprensivo una tantum, fissato nella misura di Euro 300,00, da erogarsi in tre distinte soluzioni; ovverosia:

  • Euro 100,00: a maggio 2021;
  • Euro 100,00: a gennaio 2022;
  • Euro 100,00: a gennaio 2023.

Il CCNL dispone che debba procedersi ad una quantificazione proporzionalmente ridotta su base mensile delle suddette tranches, per i lavoratori assunti dopo il 24 febbraio 2021 e per coloro che cesseranno il servizio nel corso del triennio 2021-2023.

 

  1. CCNL Agenzia di viaggio e turismo (Confcommercio): premio di risultato

In mancanza di un accordo sul premio di risultato stipulato entro il 30 aprile 2021, i datori di lavoro sono tenuti ad erogare entro il 31 maggio2021 gli importi indicati nella seguente tabella:

Livello

Euro

A, B

186

1, 2, 3

158

4, 5

140

6S, 6, 7

112

 

  1. CCNL Autorimesse e noleggio automezzi: elemento di garanzia retributiva

Entro il 31 maggio 2021 dovrà essere erogato un importo annuo pari ad Euro 400,00 ai dipendenti di aziende che non abbiano stipulato accordi di secondo livello alla data del 31 dicembre 2020 e sempreché essi non percepiscano trattamenti economici, anche forfettari, individuali o collettivi, in aggiunta al trattamento economico già fissato dal CCNL. Tale corrispettivo spetterà anche per ogni successiva annualità, alla medesima scadenza.

Laddove l’azienda non proceda alla contrattazione di secondo livello ed eroghi importi a titolo individuale o collettivo unilateralmente, gli stessi saranno riallineati al valore dell’elemento di garanzia retributiva stabilita se inferiori.

In caso di importo inferiore derivante dall’applicazione di un accordo aziendale stipulato sulla contrattazione di secondo livello, il limite dell’elemento di garanzia retributiva non trova applicazione.

Il trattamento viene erogato in unica soluzione con le competenze del mese di maggio ed è corrisposto pro quota con riferimento a tanti dodicesimi quanti sono stati i mesi di servizio prestati dal lavoratore, anche in modo non consecutivo, nell’anno precedente. La prestazione di lavoro superiore a 15 giorni sarà considerata, a questi effetti, come mese intero. Detto importo sarà riproporzionato per i lavoratori a tempo parziale in funzione del normale orario di lavoro.

  1. Aumento dei minimi retributivi

A decorrere dal 1° maggio 2021 è previsto un aumento dei minimi retributivi tabellari dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:

  • CCNL Centri elaborazione dati;
  • CCNL Grafici editoriali (Industria).

Esonero contributivo under 36: i chiarimenti dell’INPS

Con la circolare n. 56 dello scorso 12 aprile, l’INPS ha fornito i primi chiarimenti in merito all’esonero contributivo per i datori di lavoro che assumono a tempo indeterminato o trasformano da tempo determinato a tempo indeterminato giovani under 36 secondo le disposizioni della Legge di Bilancio 2021.

L’ammontare dell’esonero è pari al 100% della contribuzione previdenziale a carico dei datori di lavoro, nel limite massimo di importo pari a 6.000 euro annui e per un massimo 36 mesi.

Per le aziende con un’unità produttiva ubicata nelle regioni di Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Puglia, Sicilia, Campania e Sardegna l’esonero spetta per un massimo di 48 mesi.

Inoltre, per beneficiarne, i datori di lavoro non solo devono essere in regola con i versamenti contributivi ma non devono aver proceduto, nei sei mesi precedenti l’assunzione incentivata e nei successivi nove mesi, a licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo e a licenziamenti collettivi.

Contributi Inps per socio-amministratore di SRL, ecco cosa dice la Cassazione (Agendadigitale.eu, 8 aprile 2021 – Nunzio Lena, Andrea Di Nino)

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 1759 del 27 gennaio 2021, è intervenuta nuovamente sul tema della doppia contribuzione a carico dei soggetti che sono, nello stesso momento, soci e amministratori di società a responsabilità limitata avente un oggetto sociale classificabile nel settore terziario.

In particolare, in conformità alla prassi INPS e agli orientamenti giurisprudenziali prevalenti dal 2011, il socio-amministratore è obbligato al duplice versamento dei contributi: (i) presso la Gestione Commercianti INPS, in qualità di socio, per il reddito d’impresa prodotto dalla società e (ii) presso la Gestione Separata INPS per il reddito derivante dall’eventuale compenso percepito per la carica di amministratore.

Con l’ordinanza in commento, la Suprema Corte non nega il principio generale della doppia iscrizione del socio-amministratore alle predette gestioni INPS, bensì enuclea l’assunto in forza del quale può essere esclusa l’iscrizione del socio alla Gestione Commercianti.

L’impugnazione giudiziale della cartella di pagamento notificata dall’INPS

La Corte d’Appello di Bologna confermava la sentenza di primo grado di accoglimento dell’opposizione proposta dal presidente del consiglio di amministrazione e socio di una S.r.l. avverso una cartella di pagamento notificata dall’INPS. In particolare, detta cartella riguardava i contributi dovuti alla Gestione Commercianti per l’attività svolta dallo stesso in qualità di socio che, in quanto amministratore con compenso, risultava altresì iscritto alla Gestione Separata INPS.

La Corte d’Appello, ritenuta ammissibile la doppia iscrizione, affermava che ai fini dell’iscrizione alla Gestione Commercianti INPS l’attività svolta in qualità di socio doveva essere diversa e distinta da quella di amministratore.

Nel caso di specie, l’attività di supervisione e la posizione di referente per i clienti e i fornitori o l’assunzione di un dipendente da parte del presidente del consiglio di amministrazione, rientravano nelle normali incombenze dell’amministratore.

Avverso la sentenza di secondo grado l’INPS ricorreva in cassazione affidandosi ad unico articolato motivo di ricorso.

L’illegittimità dell’operato dell’INPS secondo la Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha, innanzitutto, osservato che il comma 208 dell’articolo 1, della legge 662/1996 non ha introdotto alcun principio di alternatività tra l’iscrizione alla Gestione Commercianti e l’iscrizione alla Gestione Separata di cui all’art. 2, comma 26, Legge n. 335/95.

La Corte ha infatti ribadito che, a seguito dell’interpretazione autentica della suddetta norma operata dall’articolo 12, comma 11, del Decreto Legge 78/2010, convertito nella Legge 122/2010, il legislatore ha escluso la regola dell’unicità dell’iscrizione. Tale unicità “resta possibile (e presso la gestione dell’attività prevalente) solo per le attività autonome esercitate in forma d’impresa dai commercianti, dagli artigiani e dai coltivatori diretti.

La Corte ha, altresì, evidenziato che “in caso di esercizio di attività in forma d’impresa ad opera di commercianti o artigiani ovvero di coltivatori diretti contemporaneamente all’esercizio di attività autonoma per la quale è obbligatoriamente prevista l’iscrizione alla gestione previdenziale separata di cui all’art. 2, comma 26, legge 335/1995, non opera l’unificazione della contribuzione sulla base del parametro dell’attività prevalente, quale prevista dall’art. 1, comma 208, legge n. 662 del 1996“.

Secondo la Corte di Cassazione, il suddetto principio della doppia contribuzione, richiamato dalla giurisprudenza, ha prodigato la prassi dell’INPS di procedere con l’iscrizione d’ufficio del socio-amministratore di società a responsabilità limitata: (i) presso la Gestione Commercianti INPS, per il reddito d’impresa prodotto in qualità di socio e (ii) presso la Gestione Separata INPS per il reddito derivante dal compenso percepito per la carica di amministratore.

Con l’ordinanza in commento, gli ermellini non hanno messo in discussione il principio della doppia contribuzione, bensì la prassi operata d’ufficio dall’istituto previdenziale. In particolare, i giudici  hanno stabilito che “lo svolgimento […] della sola attività di amministratore, senza alcuna partecipazione diretta all’attività materiale ed esecutiva dell’azienda” non può essere sufficiente a giustificare l’iscrizione alla Gestione Commercianti, e che “né, di per sé, la qualifica di socio di una società di capitali (con responsabilità limitata al capitale sottoscritto e con partecipazione alla realizzazione dello scopo sociale esclusivamente tramite il conferimento di tale capitale) può essere significativa dell’esercizio di diretta attività commerciale nell’azienda”.

Nel caso di specie, lo svolgimento di attività di supervisione, la funzione di referente per i clienti e fornitori o l’assunzione di un dipendente rientrano tutte nelle competenze dell’amministratore e non anche in quelle di socio.

Sulla base di tali considerazioni, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso dell’INPS confermando l’illegittimità dell’iscrizione d’ufficio del socio-amministratore alla Gestione Commercianti non avendo l’istituto previdenziale provato la “partecipazione diretta all’attività materiale ed esecutiva dell’azienda” per iscrivere il socio alla predetta gestione.

Conclusioni

Con l’ordinanza in commento, la Suprema Corte mette in discussione l’iscrizione d’ufficio del socio-amministratore di s.r.l. alla Gestione Commercianti.  Secondo la Cassazione, è onere dell’INPS dimostrare la partecipazione diretta all’attività materiale ed esecutiva dell’azienda che genererà l’obbligo di iscrivere il socio-amministratore di S.r.l. alla Gestione Commercianti.

Tale partecipazione diretta del socio nell’attività aziendale è facilmente dimostrabile dall’istituto nel caso in cui, ad esempio, la società eserciti una attività d’impresa con oggetto sociale classificabile nel settore terziario senza avvalersi dell’apporto di personale dipendente o collaboratori.

 

Fonte: Agendadigitale.eu

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