Decreto Sostegni: le novità in materia di cassa integrazione

Lo scorso 23 marzo è entrato in vigore il “Decreto Sostegni” che ha introdotto ulteriori misure a sostegno per le imprese, a seguito del protrarsi dell’emergenza epidemiologica da COVID-19.

Sono stati, infatti, prorogati i trattamenti di integrazione salariali. In particolare, sono state introdotte ulteriori 13 settimane di Cassa Integrazione ordinaria collocabili nel periodo dal 1° aprile al 30 giugno 2021.

Per quanto riguarda invece i trattamenti di integrazione salariale FIS e Cassa Integrazione in deroga, sono state introdotte ulteriori 28 settimane collocabili nel periodo dal 1° aprile al 31 dicembre 2021.

Per le nuove settimane di integrazione salariale non è dovuto alcun contributo addizionale all’INPS.  

Le domande di accesso ai trattamenti dovranno essere presentate entro la fine del mese successivo a quello in cui ha avuto inizio la sospensione o la riduzione dell’attività.

Omissione contributiva e responsabilità dell’INPS

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 2164 depositata il 1° febbraio 2021, ha affrontato il tema del diritto del lavoratore al risarcimento del “danno pensionistico” causato dall’omissione contributiva da parte del datore di lavoro e della eventuale responsabilità dell’INPS chiamata in giudizio a rispondere del danno.

I fatti di causa

Nel caso di specie la Corte d’Appello di Genova aveva accolto l’impugnazione proposta da una lavoratrice nei confronti dell’INPS e del proprio datore di lavoro (chiamato in causa dall’INPS) avverso la sentenza di primo grado. Sentenza con cui era stata rigettata la domanda proposta dalla stessa al fine di ottenere direttamente dall’istituto previdenziale la regolarizzazione della propria posizione assicurativa, con accredito dei contributi omessi dal datore di lavoro relativamente al periodo dal 1° gennaio 2007 al 14 ottobre 2010.

La Corte d’Appello, ritenuta provata la sussistenza del rapporto di lavoro nel periodo contestato, (i) aveva applicato il disposto dell’art. 2116 cod. civ., accertando il diritto della lavoratrice ad ottenere dall’INPS la regolarizzazione della propria posizione assicurativa con accredito dei contributi omessi dal datore di lavoro – e ormai prescritti – e (ii) aveva dichiarato inammissibile la domanda proposta dall’istituto di recuperare i contributi dal datore di lavoro.

Avverso la sentenza di secondo grado l’INPS ricorreva in cassazione affidandosi a due motivi di ricorso.

La decisione della Corte di Cassazione

Innanzitutto, la Suprema Corte rammenta che l’obbligazione contributiva ha come soggetto attivo l’ente assicuratore, ovverosia l’INPS, e come soggetto passivo il datore di lavoro, debitore dei contributi anche per la parte a carico  del  prestatore  di  lavoro,  salvo  il diritto di rivalsa (articolo 2115 cod. civ.) oppure per l’intero in ipotesi di pagamento tardivo o parziale (articolo 23, Legge 218/1952).

In virtù di quanto precede, secondo la Corte, il lavoratore non può chiedere all’INPS di sostituirsi al datore di lavoro nel pagamento dei contributi che rimane il diretto responsabile.

Quale rimedio all’omissione contributiva del datore di lavoro, ormai prescritta nel caso di specie, il lavoratore può:

  • avviare l’azione di risarcimento nei confronti del datore di lavoro per il danno da mancata, parziale o irregolare contribuzione ai sensi dell’articolo 2116 cod. civ. e
  • richiedere all’INPS la costituzione di una rendita vitalizia, ai sensi dell’articolo 13 della Legge 1138/1962.

Analoga facoltà è prevista per il datore di lavoro che abbia omesso di versare contributi per l’assicurazione obbligatoria invalidità, vecchiaia e superstiti e non possa più versarli per sopravvenuta prescrizione. Il datore di lavoro, a parere della Corte di Cassazione, può richiedere una rendita vitalizia reversibile pari alla pensione o quota di pensione adeguata dell’assicurazione obbligatoria che spetterebbe al lavoratore dipendente in relazione ai contributi omessi, mediante il versamento della corrispondente riserva matematica.

Tuttavia, la Corte di Cassazione ribadisce che, in caso di prescrizione del credito contributivo per il decorso del termine di 5 anni (come nel caso di specie), l’azione risarcitoria del lavoratore è giustificata una volta che si siano realizzati i requisiti per l’accesso alla prestazione previdenziale. Ciò in quanto “tale situazione determina l’attualizzarsi per il lavoratore del danno patrimoniale risarcibile, consistente nella perdita totale del trattamento pensionistico ovvero nella percezione di un trattamento inferiore a quello altrimenti spettante”.

Solo in quel caso, infatti, si configura un danno patrimoniale risarcibile che si esplica nella perdita totale del trattamento pensionistico o nella percezione in misura inferiore. E l’INPS è responsabile per il mancato pagamento del datore di lavoro solo quando, nonostante la tempestiva comunicazione, non provveda a riscuotere quanto dovuto. Sul punto, la Corte di Cassazione statuisce infatti che “ove l’Istituto previdenziale non abbia provveduto a conseguire dal datore di lavoro i contributi omessi, nonostante sia venuto tempestivamente a conoscenza dell’omissione, lo stesso è tenuto a provvedere alla regolarizzazione della posizione assicurativa del lavoratore, che ne abbia fatto richiesta”.

Pertanto, in caso di omissione contributiva per la quale sia già decorso il termine prescrizionale di legge, il lavoratore non può agire direttamente nei confronti dell’istituto richiedendogli di sostituirsi al datore di lavoro nel pagamento dei contributi. L’obbligazione contributiva vede quale soggetto passivo il datore di lavoro, residuando in favore del lavoratore soltanto l’azione di risarcimento del danno ex art. 2116 cod. civ. e la facoltà di chiedere all’ente la costituzione della rendita ai sensi dell’art. 13 della Legge 1338/1962.

Fondo Nuove Competenze: prorogati i termini per l’accesso

Il Fondo Nuove Competenze (“FNC”) è stato istituito dal D.L. 34/2020 (“Decreto Rilancio”) e rifinanziato, in seguito, dal D.L. 104/2020 (“Decreto Agosto”) allo scopo di sostenere economicamente i datori di lavoro che attivano percorsi formativi finalizzati all’acquisizione di nuove o maggiori competenze da parte del proprio personale dipendente. I datori di lavoro beneficiari possono vedersi rimborsato il costo delle ore di lavoro destinate a percorsi formativi, comprensivo degli oneri contributivi di natura previdenziale e assistenziale.

I requisiti richiesti ai datori di lavoro beneficiari

L’accesso al FNC è riservato a tutti i datori di lavoro privati che abbiano sottoscritto accordi collettivi di rimodulazione dell’orario di lavoro a livello aziendale o territoriale con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul territorio nazionale ovvero con le loro rappresentanze sindacali operative in azienda. Tali accordi devono individuare:

  • i fabbisogni dell’impresa in termini di nuove o maggiori competenze;
  • i progetti formativi finalizzati allo sviluppo delle competenze;
  • il numero dei lavoratori coinvolti nel progetto;
  • il numero di ore – all’interno dell’orario di lavoro dei dipendenti coinvolti – da destinare ai percorsi di sviluppo delle competenze;
  • nei casi di erogazione della formazione da parte dell’impresa, la dimostrazione del possesso dei requisiti tecnici e professionali di capacità formativa per la realizzazione del progetto stesso.

Inizialmente, la scadenza per la stipula degli accordi e la presentazione della relativa domanda all’ANPAL era fissata al 31 dicembre 2020: tale termine è stato esteso al 30 giugno 2021 ad opera del Decreto interministeriale emanato il 22 gennaio 2021 dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, ripreso dal Decreto direttoriale ANPAL n. 69 del 17 febbraio scorso.

Le modalità di accesso al fondo

Le domande di accesso al FNC possono essere presentate dal 18 gennaio scorso sul portale istituzionale dell’ANPAL e devono essere inviate entro la menzionata scadenza del 30 giugno: al fine di inviare l’istanza, il datore di lavoro deve accedere tramite il proprio SPID o, in alternativa, delegando un intermediario.

All’interno del portale dell’ANPAL, il rappresentante legale dell’azienda – o il suo delegato – è tenuto a fornire le varie informazioni richieste al fine della presentazione dell’istanza. Nello specifico, è necessario inserire i dati anagrafici del datore di lavoro, i dati quantitativi attinenti al progetto di formazione da avviare e il dettaglio dei documenti obbligatori richiesti, quali (i) l’accordo collettivo di rimodulazione dell’orario di lavoro sottoscritto con le rappresentanze sindacali, (ii) il progetto di sviluppo delle competenze dei dipendenti e (iii) l’elenco dei dipendenti coinvolti.

In caso di società facenti parte del medesimo gruppo, è possibile presentare un’istanza cumulativa da parte della società capogruppo.

L’istanza sarà esaminata dall’ANPAL secondo il criterio cronologico di presentazione e si riterrà accolta per silenzio assenso decorsi 10 giorni dal suo invio. Il datore di lavoro istante potrà consultare lo stato di lavorazione della stessa direttamente sul portale web dell’ANPAL.

Qualora la documentazione aziendale risultasse incompleta, l’ANPAL invierà all’istante una richiesta di integrazioni e/o chiarimenti rispetto alla documentazione ricevuta. Questi, entro e non oltre 10 giorni di calendario dalla ricezione della richiesta dell’ANPAL, dovrà provvedere a trasmettere quanto richiesto, pena la sospensione dell’istanza e la decadenza dell’ordine cronologico di presentazione. L’istanza sospesa per decorrenza del termine di 10 giorni sarà riattivata al momento dell’eventuale e successiva presentazione della documentazione necessaria.

La realizzazione del progetto formativo e l’erogazione del contributo

In generale, i percorsi formativi – della durata massima di 250 ore per lavoratore – dovranno essere realizzati entro 90 giorni dall’approvazione della domanda inviata all’ANPAL.

Il contributo verrà corrisposto al datore di lavoro – fino ad esaurimento fondi – dall’INPS, in due distinte soluzioni: un’anticipazione pari al 70% del contributo globale e un secondo versamento a saldo. Quest’ultimo potrà essere richiesto dal datore di lavoro nei 40 giorni successivi al completamento delle attività di sviluppo delle competenze da parte dei dipendenti.

Tribunale di Roma: applicabilità del divieto di licenziamento anche ai dirigenti

Il Tribunale di Roma, con ordinanza del 26 febbraio 2021, ha affermato che il divieto di licenziamento per motivi economici, introdotto dalla normativa emergenziale, deve ritenersi applicabile anche ai dirigenti.

I fatti di causa

I fatti di causa riguardano un lavoratore, inquadrato come Dirigente ai sensi del Contratto Collettivo Nazionale dei Dirigenti del settore Terziario, licenziato in data 23 luglio 2020 per giustificato motivo oggettivo, in ragione di una riorganizzazione aziendale conseguente al calo di attività causata dall’emergenza sanitaria da Covid-19.

Il Dirigente impugnava il licenziamento invocando la violazione dell’art. 46 del Decreto Legge 18/2020, convertito nella Legge 27/2020, e dell’art. 81 del Decreto Legge 34/2020, convertito nella Legge 77/2020, i quali prevedevano il divieto di licenziamento per giustificato motivo, ai sensi dell’art. 3 della Legge 604/1966, a far data dal 23 febbraio 2020.

La decisione del Tribunale

Il Tribunale di Roma, nell’accogliere il ricorso del Dirigente, afferma che la ratio alla base del blocco dei licenziamenti di cui alla normativa emergenziale è di “ordine pubblico” e di “solidarietà sociale”. Essa consiste nell’“evitare in via provvisoria che le conseguenze economiche della pandemia si traducano nella soppressione di posti di lavoro”, scongiurando, pertanto, che i danni dalla stessa causati gravino sui lavoratori. La menzionata esigenza di tutela “è comune ai dirigenti che, anzi, sono più esposti a tale rischio stante la maggior elasticità del loro regime contrattualcollettivo di preservazione dai licenziamenti arbitrari (c.d. giustificatezza) rispetto a quello posto dall’art. 3 della L. 604/66”.

A detta del giudice adito, pertanto, l’estensione del divieto in argomento si basa in primis sul principio di “non disparità di trattamento”: l’esclusione della categoria dei dirigenti dalla tutela emergenziale introdotta dal legislatore nella fase pandemica sarebbe, infatti, irragionevole in quanto in aperto contrasto con l’articolo 3 della Costituzione secondo cui “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge.

Inoltre, il giudice basa la propria pronuncia sul concetto di “giustificato motivo oggettivo” di cui all’art. 3 della L. 604/66 che, a suo parere, deve intendersi comprensivo della nozione di “giustificatezza oggettiva” (inerente i dirigenti) che con il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ne “condivide sostanzialmente la natura”. Ciò consente di ritenere, sempre secondo il giudice, che il riferimento fatto dalla normativa sul blocco dei licenziamenti all’art. 3 della L. 604/66 “miri a identificare la natura della ragione impassibile di essere posta a fondamento del recesso, e non a delimitare l’ambito soggettivo di applicazione del divieto”.

Su tali presupposti, il Tribunale di Roma dichiara nel caso di specie nullo il licenziamento intimato al dirigente disponendo:

  • la sua reintegra nel posto di lavoro;
  • il risarcimento del danno in misura pari all’ultima retribuzione globale di fatto dallo stesso maturata dalla data di licenziamento alla data della reintegra oltre alla rivalutazione ed agli interessi legali maturati;
  • il versamento agli enti competenti dei contributi previdenziali e assistenziali dovuti nei suoi confronti.

◊ ◊ ◊ ◊

L’ordinanza in commento giunge, dunque, alla conclusione secondo la quale le norme sul divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo introdotte dal legislatore durante il periodo di emergenza sanitaria da Covid–19 sono estendibili anche ai dirigenti nonostante quest’ultimi non rientrino nel campo di applicazione della Legge 604/66 richiamata dalla normativa emergenziale.

INPS: primi chiarimenti sullo sgravio contributivo per l’assunzione di donne

Con la circolare n. 32 del 22 febbraio 2021, l’INPS ha fornito i primi chiarimenti in merito alla fruizione dell’esonero contributivo, introdotto dalla Legge di Bilancio 2021, per l’assunzione di donne lavoratrici effettuate nel biennio 2021-2022.

Il quadro normativo

L’articolo 1, comma 16, della legge n. 178 del 30 dicembre 2020 (la “Legge di Bilancio 2021”) ha previsto che per le assunzioni di donne lavoratrici effettuate nel biennio 2021-2022 l’esonero contributivo di cui all’articolo 4, commi da 9 a 11, della legge n. 92 del 28 giugno 2012 (c.d. Riforma Fornero), sia riconosciuto nella misura del 100 per cento nel limite massimo di importo pari a 6.000 euro annui.

Al comma 17 del medesimo articolo è stato, altresì, precisato che il riconoscimento dell’esonero è subordinato al requisito dell’incremento occupazionale netto del datore di lavoro che assume, calcolato sulla base della differenza tra il numero dei lavoratori occupati rilevato in ciascun mese e il numero dei lavoratori mediamente occupati nei 12 mesi precedenti.

Al riguardo, si segnala che, ai fini della determinazione dell’incremento occupazionale il numero dei dipendenti è calcolato in Unità di Lavoro Annuo (U.L.A.), secondo il criterio convenzionale proprio del diritto comunitario.

La circolare in esame non fornisce però alcuna indicazione operativa, in quanto l’applicazione del beneficio è subordinata all’autorizzazione della Commissione Europea a seguito della quale, come precisato dallo stesso Istituto, sarà emanato un nuovo messaggio avente ad oggetto le modalità di compilazione delle dichiarazioni contributive da parte dei datori di lavoro che intendono accedere al beneficio.

Datori di lavoro interessati dal beneficio

I soggetti che possono accedere allo sgravio contributivo sono tutti i datori di lavoro privati, anche non imprenditori, ivi compresi i datori di lavoro del settore agricolo.

L’esonero contributivo in oggetto non si applica, quindi, nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni, individuabili assumendo a riferimento la nozione e l’elencazione recate all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.

Lavoratrici per le quali spetta lo sgravio

In ragione dell’espresso richiamo operato dalla Legge di Bilancio 2021, l’incentivo è da intendersi come una naturale estensione di quanto già disciplinato dalla Riforma Fornero.

Rientrano nella nozione di “donne svantaggiate”, per le quali spetta lo sgravio in argomento in ipotesi di assunzione, le seguenti categorie:

  • donne con almeno cinquant’anni di età e “disoccupate da oltre dodici mesi”;
  • donne di qualsiasi età, residenti in regioni ammissibili ai finanziamenti nell’ambito dei fondi strutturali dell’Unione europea e prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi;
  • donne di qualsiasi età che svolgono professioni o attività lavorative in settori economici caratterizzati da un’accentuata disparità occupazionale di genere e “prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi”;
  • donne di qualsiasi età, ovunque residenti e “prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno ventiquattro mesi. Ai fini del rispetto del requisito, occorre considerare il periodo di 24 mesi antecedente la data di assunzione e verificare che in quel periodo la lavoratrice non abbia svolto un’attività di lavoro subordinato legata a un contratto di durata di almeno 6 mesi ovvero un’attività di collaborazione coordinata e continuativa la cui remunerazione annua sia superiore a 8.145 euro o, ancora, un’attività di lavoro autonomo tale da produrre un reddito annuo lordo superiore a 4.800 euro.

Pertanto, ai fini del riconoscimento del beneficio è richiesto o uno stato di disoccupazione di lunga durata (oltre 12 mesi) o il rispetto, in combinato con ulteriori condizioni, del requisito di inoccupazione (la lavoratrice deve essere, infatti, “priva di impiego”).

L’inoltro tardivo delle comunicazioni telematiche obbligatorie, inerenti all’instaurazione e alla modifica di un rapporto di lavoro o di somministrazione, comporta la perdita di quella parte dell’incentivo relativa al periodo compreso tra la data di decorrenza del rapporto agevolato e la data della tardiva comunicazione.

Tipologie di rapporti di lavoro incentivati e durata dello sgravio

L’incentivo in esame spetta per:

  • le assunzioni a tempo determinato;
  • le assunzioni a tempo indeterminato;
  • le trasformazioni a tempo indeterminato di un precedente rapporto agevolato.

Con riferimento alla sua durata, l’INPS precisa che l’incentivo spetterà:

  • fino a 12 mesi nelle casistiche di assunzione a tempo determinato;
  • per 18 mesi nelle casistiche di assunzione a tempo indeterminato;
  • per complessivi 18 mesi a decorrere dalla data di assunzione in caso di trasformazione a tempo indeterminato di un rapporto a termine.

È opportuno evidenziare come la fruizione dell’incentivo possa essere sospesa esclusivamente nei casi di assenza obbligatoria dal lavoro per maternità, consentendo, in tale ipotesi, il differimento temporale del periodo di godimento.

Requisiti per la fruizione dell’incentivo

Il diritto alla fruizione dell’incentivo è subordinato, oltre al verificarsi dell’incremento occupazionale netto e al rispetto dei principi generali in materia di incentivi stabiliti dall’articolo 31 del D.Lgs. n. 150/2015, alle seguenti condizioni previste dall’articolo 1, comma 1175, della legge n. 296/2006, ovverosia:

  • alla regolarità degli obblighi di contribuzione previdenziale (DURC);
  • all’assenza di violazioni delle norme fondamentali a tutela delle condizioni di lavoro e rispetto degli altri obblighi di legge;
  • al rispetto degli accordi e contratti collettivi nazionali, nonché di quelli regionali, territoriali o aziendali, sottoscritti dalle Organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

Si segnala che, ai sensi dell’articolo 2, punto 32, del Regolamento (UE) n. 651/2014, l’incremento occupazionale netto deve intendersi come “l’aumento netto del numero di dipendenti dello stabilimento rispetto alla media relativa ad un periodo di riferimento; i posti di lavoro soppressi in tale periodo devono essere dedotti e il numero di lavoratori occupati a tempo pieno, a tempo parziale o stagionalmente va calcolato considerando le frazioni di unità di lavoro-anno”.

In particolare, come già chiarito nell’interpello n. 34/2014 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, il datore di lavoro deve verificare l’effettiva forza lavoro presente nei 12 mesi successivi l’assunzione agevolata e non una occupazione “stimata”.

In ragione di quanto precede, qualora al termine dell’anno successivo all’assunzione il datore di lavoro dovesse riscontrare un incremento occupazionale netto in termini di U.L.A., le quote mensili di incentivo eventualmente già godute si “consolidano”. In caso contrario, l’incentivo non può essere legittimamente riconosciuto e il datore di lavoro è tenuto alla restituzione delle singole quote di incentivo eventualmente già godute in mancanza del rispetto del requisito richiesto mediante le procedure di regolarizzazione.

Si precisa che l’incentivo in argomento, in forza del disposto dell’articolo 32, paragrafo 3, del Regolamento (UE) n. 651/2014, è comunque applicabile qualora l’incremento occupazionale netto non si realizzi in quanto il posto o i posti di lavoro precedentemente occupato/occupati si sia/siano reso/resi vacante/vacanti a seguito di:

  • dimissioni volontarie;
  • invalidità;
  • pensionamento per raggiunti limiti d’età;
  • riduzione volontaria dell’orario di lavoro;
  • licenziamento per giusta causa.

Cumulabilità con altri incentivi

L’esonero in esame è cumulabile con altri esoneri nei limiti della contribuzione previdenziale dovuta e a condizione che, per gli altri esoneri di cui si intenda fruire, non sia espressamente previsto un divieto di cumulo con altri regimi.

Nell’ipotesi in cui l’esonero risulti cumulabile con un’altra agevolazione, per l’effettiva applicazione della seconda misura agevolata occorre far riferimento alla contribuzione “dovuta” ovverosia alla contribuzione residua “dovuta in ragione del primo esonero applicato.

Quanto alla sequenza secondo cui debba operarsi la cumulabilità tra gli esoneri, la stessa deve avvenire in ragione delle norme approvate, in ordine temporale, sul presupposto che l’ultimo esonero introdotto nell’ordinamento si cumula con i precedenti sulla contribuzione residua “dovuta”.

Aprile 2021: NOVITA’ E RINNOVI CCNL

  1. CCNL Agenzie di lavoro interinale: assemblee sindacali da remoto

Ai sensi dell’accordo stipulato in data 10 febbraio 2021, sono state prorogate fino al 30 aprile 2021 – e comunque fino al perdurare dello stato di emergenza, salvo diversa indicazione delle Parti – le disposizioni del Protocollo d’Intesa sottoscritto il 24 novembre 2020 in materia di assemblee sindacali, il quale permette lo svolgimento delle stesse anche al di fuori dei locali aziendali o da remoto, mediante piattaforma informatica.

 

  1. CCNL Lampade e cinescopi (Industria)/CCNL Vetro e lampade: contributi contrattuali

Entro il 30 aprile 2021 i datori di lavoro sono tenuti a versare le somme riscosse a titolo di contributo straordinario una tantum a riconoscimento dell’attività delle organizzazioni sindacali stipulanti in occasione del rinnovo del CCNL.

In particolare, le aziende sono tenute ad operare una trattenuta in busta paga dalle competenze del mese di marzo 2021 di ciascun dipendente non iscritto alle organizzazioni sindacali e che non abbia fatto pervenire apposito diniego alla trattenuta, quantificata nell’importo di euro 30,00. Le somme complessivamente riscosse saranno versate in unica soluzione da ciascun datore di lavoro sul conto corrente bancario indicato dalle organizzazioni sindacali stipulanti.

 

  1. CCNL Attività ferroviarie: una tantum

Ai lavoratori in forza al 18 febbraio 2021 è riconosciuto un importo una tantum da erogarsi in due tranche di pari misura, la prima delle quali in occasione della retribuzione di aprile 2021. L’erogazione della seconda tranche è in programma per giugno 2021.

L’ammontare dell’importo una tantum è quantificato come da tabella seguente.

Liv./Par.

Importo lordo “Una Tantum” (Euro)

Q1

1.193,57

Q2

1.048,68

A

1.014,19

B1

965,89

B2

924,50

B3

910,70

C1

890,00

C2

876,20

D1

862,40

D2

834,81

D3

821,01

E1

807,21

E2

772,71

E3

758,91

F1

703,72

F2

689,92

 

 

  1. CCNL Telecomunicazioni: una tantum

Le imprese il cui esercizio sociale si chiude nel mese di marzo sono tenute ad erogare, con le competenze del mese di aprile 2021, un importo lordo pari a Euro 450,00 ai lavoratori a tempo indeterminato aventi anzianità di servizio superiore a dodici mesi ed in forza nel mese di erogazione.

Per le imprese che svolgono attività di CRM/BPO l’importo viene erogato con le seguenti modalità:

  • Euro 225,00 con le competenze del mese di aprile 2021;
  • Euro 225,00 trascorsi dodici mesi dalla prima erogazione.
  1. CCNL Case di cura private – Personale medico (ARIS): una tantum

Al dirigente medico assunto prima del 1° gennaio 2020 ed ancora in servizio alla data del 7 ottobre 2020, è riconosciuto un importo netto a titolo di una tantum pari ad Euro 2.500,00, avente la finalità di riparare il disagio derivante dalla ritardata sottoscrizione del rinnovo del CCNL. L’importo verrà corrisposto in cinque tranches di pari importo, con le retribuzioni dal mese di gennaio 2021 al mese di maggio 2021.

Pertanto, con la retribuzione del mese di aprile 2021 i datori di lavoro saranno tenuti a corrispondere la quarta tranche da Euro 500,00.

 

  1. Aumento dei minimi retributivi dal 1° aprile 2021

A decorrere dal 1° aprile 2021 è previsto un aumento dei minimi retributivi tabellari dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:

  • CCNL Alimentari (Artigianato)
  • CCNL Giornali quotidiani
  • CCNL Telecomunicazioni

 

Regime fiscale agevolato per lavoratori impatriati: contribuenti che rientrano a seguito di distacco all’estero (Andrea Di Nino, Sintesi – Ordine dei Consulenti del Lavoro, marzo 2021)

L’Agenzia delle Entrate, mediante la risposta a interpello n. 42 del 18 gennaio 2021, ha fornito il proprio orientamento in merito all’applicabilità del regime speciale destinato ai lavoratori impatriati ai sensi dell’art. 16 del D. Lgs. 147/2015, c.d. “Decreto internazionalizzazione”, nel particolare caso del rientro dal distacco all’estero.

In particolare, il decreto ha previsto – mediante l’introduzione di un regime fiscale ad hoc – un incentivo al rientro nel nostro Paese di lavoratori autonomi e dipendenti, che potranno fruire di un consistente abbattimento del proprio imponibile fiscale a seguito del trasferimento della residenza in Italia ai sensi dell’art. 2 del TUIR, diversamente modulato a seconda della decorrenza del trasferimento e della relativa regolamentazione applicabile.

Allo scopo di fruire di tale regime, considerate le varie modifiche che si sono stratificate negli anni, ai sensi del comma 1 dell’art. 16 del decreto è necessario che il lavoratore (i) trasferisca la residenza nel territorio dello Stato ai sensi dell’art. 2 del TUIR, (ii) non sia stato residente in Italia nei due periodi d’imposta antecedenti al trasferimento, impegnandosi a risiedere in Italia per almeno 2 anni e (iii) svolga l’attività lavorativa prevalentemente nel territorio italiano.

In base al successivo comma 2, sono destinatari del beneficio fiscale in esame, inoltre, i cittadini dell’Unione Europea o di uno Stato extra-UE con il quale risulti in vigore una convenzione contro le doppie imposizioni o un accordo sullo scambio di informazioni in materia fiscale che (i) siano in possesso di un titolo di laurea e abbiano svolto “continuativamente” un’attività di lavoro dipendente, di lavoro autonomo o di impresa fuori dall’Italia negli ultimi 24 mesi o più, ovvero (ii) abbiano svolto “continuativamente” un’attività di studio fuori dall’Italia negli ultimi 24 mesi o più, conseguendo un titolo di laurea o una specializzazione post lauream.

Per quanto concerne il contenuto dell’istanza di interpello, i fatti coinvolgono un lavoratore di nazionalità italiana, laureato e assunto con contratto a tempo indeterminato da una società italiana a decorrere dal 2013. Dal 15 febbraio 2016, il lavoratore è stato distaccato presso una società del gruppo internazionale, con sede nella Repubblica Popolare Cinese (“RPC”), in virtù di contratto di lavoro locale, regolamentato dalla legislazione del Paese estero.

Nella propria istanza di interpello, il lavoratore dichiara di essere stato nuovamente assunto – dal 1° gennaio 2021 – da parte della medesima società italiana, con contratto a tempo indeterminato, e di essersi iscritto all’AIRE nel giugno 2016, considerato l’accentramento dei propri interessi economici e personali nella RPC.

Tanto premesso, l’istante chiede se possa fruire del regime speciale dei lavoratori impatriati, ai sensi dell’articolo 16, comma 2, del D. Lgs. n. 147/2015, a decorrere dal periodo d’imposta 2021.

L’Agenzia delle Entrate, a seguito dell’esame dell’istanza pervenuta, ha dapprima fornito un quadro generale della norma, definendone campo di applicazione e condizionalità. Nel dettaglio, l’autorità fiscale ha illustrato che l’agevolazione in esame è fruibile dai contribuenti per un quinquennio a decorrere dal periodo di imposta in cui trasferiscono la residenza fiscale in Italia e per i quattro periodi di imposta successivi (ai sensi dell’art. 16, comma 3 del D. Lgs. n. 147/2015). Per accedere al regime speciale, il citato art. 16 presuppone, inoltre, che il soggetto non sia stato residente in Italia per due periodi di imposta precedenti il rientro.

Con riferimento, in particolare, ai contribuenti che rientrano a seguito di distacco all’estero, l’Agenzia delle Entrate cita la recente circolare 33/E del 28 dicembre 2020 (par. 7.1), la quale precisa, tra l’altro, che “non spetta il beneficio fiscale in esame nell’ipotesi di distacco all’estero con successivo rientro, in presenza del medesimo contratto e presso il medesimo datore di lavoro. Diversamente, nell’ipotesi in cui l’attività lavorativa svolta dall’impatriato costituisca una “nuova” attività lavorativa, in virtù della sottoscrizione di un nuovo contratto di lavoro, diverso dal contratto in essere in Italia prima del distacco, e quindi l’impatriato assuma un ruolo aziendale differente rispetto a quello originario, lo stesso potrà accedere al beneficio a decorrere dal periodo di imposta in cui ha trasferito la residenza fiscale in Italia. Al riguardo, si precisa che l’agevolazione non è applicabile nelle ipotesi in cui il soggetto, pur in presenza di un “nuovo” contratto per l’assunzione di un “nuovo” ruolo aziendale al momento dell’impatrio, rientri in una situazione di “continuità” con la precedente posizione lavorativa svolta nel territorio dello Stato prima dell’espatrio.

Ciò accade, ad esempio, quando i termini e le condizioni contrattuali, indipendentemente dal “nuovo” ruolo aziendale e dalla relativa retribuzione, rimangono di fatto immutati al rientro presso il datore di lavoro in virtù di intese divaria natura, quali la sottoscrizione di clausole inserite nelle lettere di distacco ovvero negli accordi con cui viene conferito un nuovo incarico aziendale, dalle quali si evince che, sotto il profilo sostanziale, continuano ad applicarsi le originarie condizioni contrattuali in essere prima dell’espatrio”.

A titolo meramente esemplificativo, tale circolare enumera altresì alcuni indici di “continuità sostanziale”:

  • il riconoscimento di ferie maturate prima del nuovo accordo contrattuale;
  • il riconoscimento dell’anzianità dalla data di prima assunzione;
  • l’assenza del periodo di prova;
  • clausole volte a non liquidare i ratei di tredicesima (ed eventuale quattordicesima) maturati nonché il trattamento di fine rapporto al momento della sottoscrizione del nuovo accordo;
  • clausole in cui si prevede che alla fine del distacco, il distaccato sarà reinserito nell’ambito dell’organizzazione della Società distaccante e torneranno ad applicarsi i termini e le condizioni di lavoro presso la Società di appartenenza in vigore prima del distacco.

Diversamente, “laddove le condizioni oggettive del nuovo contratto (prestazione di lavoro, termine, retribuzione) richiedano un nuovo rapporto obbligatorio in sostituzione di quello precedente, con nuove ed autonome situazioni giuridiche cui segua un mutamento sostanziale dell’oggetto della prestazione e del titolo del rapporto, l’impatriato potrà accedere al beneficio fiscale in esame“.

Pertanto, con specifico riferimento al caso di specie, l’autorità fiscale ha ritenuto che il lavoratore istante potrebbe fruire del regime agevolato qui in trattazione “solo nell’ipotesi in cui la “nuova” attività lavorativa non si ponga in continuità con la precedente posizione lavorativa, nell’accezione delineata nella richiamata circolare, circostanza non verificabile in sede di interpello e non oggetto di controllo in questa sede, e sempreché risultino soddisfatti tutti gli altri requisiti previsti dalla norma in esame”.

Smart working e buoni pasto, sì al regime di esenzione: i chiarimenti dell’Agenzia delle entrate (Agendadigitale.eu, 15 marzo 2021 – Nunzio Lena, Andrea Di Nino)

L’Agenzia delle Entrate, mediante la risposta ad interpello n. 123 del 22 febbraio 2021, ha fornito chiarimenti in merito al trattamento fiscale e previdenziale del valore dei buoni pasto percepiti dai lavoratori in smart working.

In particolare, l’autorità fiscale si è espressa favorevolmente circa la possibilità di applicare il regime di esenzione previsto per i buoni pasto anche nei confronti dei dipendenti che si trovino a lavorare da remoto.

Il quesito oggetto dell’interpello

Un ente bilaterale ha presentato un’istanza di interpello nei confronti dell’Agenzia delle Entrate al fine di chiarire se, ai fini dell’applicazione delle imposte dirette, il servizio sostitutivo di mensa mediante buoni pasto erogato in favore dei propri lavoratori, che si trovano a lavorare in modalità agile, non concorra alla formazione del reddito di lavoro dipendente, ai sensi dell’articolo 51, comma 2, lettera c), del TUIR.

L’ente ha, infatti, fatto un ricorso generalizzato allo smart working in conseguenza della corrente situazione pandemica e alle nuove esigenze legate al contenimento dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 che hanno spinto il legislatore ad incentivare tale modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, nell’intento di arginare la diffusione del virus e limitare i contagi all’interno delle realtà lavorative ed aziendali.

Conseguentemente, l’ente ha chiesto all’Agenzia delle Entrate se, in qualità di sostituto di imposta, non sia tenuto “ad operare la ritenuta a titolo d’acconto IRPEF sul valore del servizio sostitutivo di mensa mediante buoni pasto che viene assicurato ai propri lavoratori dipendenti che svolgono la prestazione di lavoro in modalità smart working”, ai sensi dell’articolo 23 del D.P.R. n. 600/1973.

La soluzione interpretativa proposta dall’istante

L’istante, nella soluzione interpretativa prospettata nell’interpello, fa anzitutto presente che, ai fini contributivi, l’articolo 6, comma 3, del Decreto-legge n. 333/1992 “esclude che i buoni pasto rappresentino una parte della retribuzione del lavoratore, salvo che gli accordi ed i contratti collettivi, anche aziendali, dispongano diversamente”.

In particolare, in mancanza di una specifica previsione contrattuale che inquadri i buoni pasto tra gli elementi della retribuzione, l’istante ritiene che, “indipendentemente dalle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa (in presenza o in smart working), ai fini delle imposte dirette, i buoni pasto rientrino tra i servizi sostitutivi di mensa, parzialmente esenti dalla formazione del reddito di lavoro dipendente ai sensi dell’articolo 51, comma 2, lettera c), del TUIR”.

In definitiva, l’istante prospetta come, per i periodi in cui è stato stabilito per i propri dipendenti il lavoro in smart working, “sui buoni pasto assegnati non debba operare la ritenuta a titolo d’acconto Irpef”.

Il parere dell’Agenzia delle Entrate

L’Agenzia delle Entrate, nella propria risposta, premette che, in deroga al principio di onnicomprensività che disciplina il reddito di lavoro dipendente, l’articolo 51, comma 2, lettera c), del TUIR prevede che non concorrono alla formazione del reddito del lavoratore dipendente “le somministrazioni di vitto da parte del datore di lavoro nonché quelle in mense organizzate direttamente dal datore di lavoro o gestite da terzi; le prestazioni sostitutive delle somministrazioni di vitto fino all’importo complessivo giornaliero di euro 4, aumentato a euro 8 nel caso in cui le stesse siano rese in forma elettronica; le indennità sostitutive delle somministrazioni di vitto corrisposte agli addetti ai cantieri edili, ad altre strutture lavorative a carattere temporaneo o ad unità produttive ubicate in zone dove manchino strutture o servizi di ristorazione fino all’importo complessivo giornaliero di euro 5,29”.

La ratio sottesa a tale regime fiscale di favore è ispirata dalla volontà del legislatore di detassare le erogazioni ai dipendenti che si ricollegano alla necessità del datore di lavoro di “provvedere alle esigenze alimentari del personale che durante l’orario di lavoro deve consumare il pasto”.

L’autorità fiscale prosegue nella disamina della norma e della relativa prassi, evidenziando come l’articolo 4 del decreto del Ministero dello Sviluppo Economico n. 122/2017 preveda, in merito ai buoni pasto, quanto segue:

  1. consentono al titolare di ricevere un servizio sostitutivo di mensa di importo pari al valore facciale del buono pasto;
  2. consentono all’esercizio convenzionato di provare documentalmente l’avvenuta prestazione nei confronti delle società di emissione;
  3. sono utilizzati esclusivamente dai prestatori di lavoro subordinato, a tempo pieno o parziale, anche qualora l’orario di lavoro non preveda una pausa per il pasto, nonché dai soggetti che hanno instaurato con il cliente un rapporto di collaborazione anche non subordinato; non sono cedibili, né cumulabili oltre il limite di otto buoni, né commercializzabili o convertibili in denaro e sono utilizzabili solo dal titolare;
  4. sono utilizzabili esclusivamente per l’intero valore facciale.

La previsione contenuta nel citato decreto ministeriale, di fatto, “tiene conto della circostanza che la realtà lavorativa è sempre più caratterizzata da forme di lavoro flessibili” e, in merito, viene rilevato come al contempo, la normativa fiscale non preveda “una definizione delle prestazioni sostitutive di mensa, limitandosi a prevederne la non concorrenza al reddito nei limiti descritti”.

Considerata, per di più, l’assenza di disposizioni che limitano l’erogazione, da parte del datore di lavoro, dei buoni pasto in favore dei propri dipendenti, l’Agenzia delle Entrate conferma come per tali prestazioni sostitutive del servizio di mensa trovi applicazione il regime di parziale imponibilità prevista dalla lettera c) del comma 2 dell’articolo 51 del TUIR, indipendentemente dall’articolazione dell’orario di lavoro e dalle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa.

Conclusioni

Con riferimento al caso in esame, l’Agenzia delle Entrate ha pertanto ritenuto che i buoni pasto erogati ai dipendenti – a prescindere dalle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa – non concorrono alla formazione del reddito di lavoro dipendente, nei limiti e ai sensi dell’articolo 51, comma 2, lettera c), del TUIR. In conformità a tutto quanto precede, i datori di lavoro non saranno tenuti “ad operare anche nei confronti dei lavoratori in smart working, la ritenuta a titolo di acconto Irpef, prevista dall’articolo 23 del D.P.R. n. 60/1973, sul valore dei buoni pasto fino a euro 4, se cartacei, ovvero euro 8, se elettronici”.

Fonte: Agendadigitale.eu

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