Buoni pasto: per la Cassazione è possibile la revoca unilaterale (Andrea Di Nino, Sintesi – Ordine dei Consulenti del Lavoro, ottobre 2020)

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 16135 del 28 luglio 2020, ha affermato che i buoni pasto non hanno natura retributiva e che, di conseguenza, la loro erogazione mensile ai lavoratori dipendenti può essere interrotta da parte del datore di lavoro in qualsiasi momento, anche unilateralmente.

I fatti di causa vedono un lavoratore ricorrere giudizialmente contro il proprio datore di lavoro, allo scopo di veder dichiarata l’illegittimità della decisione aziendale con la quale quest’ultimo aveva, in maniera del tutto unilaterale, disposto l’interruzione dell’erogazione dei buoni pasto in favore dei propri dipendenti. In particolare, il lavoratore rivendicava, nell’oggetto del proprio ricorso, la funzionalità dei buoni pasto ad un rapporto contrattuale integrativo, componente della retribuzione anche per la legittima aspettative dei lavoratori a seguito della reiterata e generalizzata prassi aziendale dall’anno 1999 al 2006. Di conseguenza, l’erogazione dei buoni pasto sarebbe da ricondursi al principio di irriducibilità della retribuzione stessa.

I giudici della Corte di Cassazione – nel confermare la pronuncia della Corte d’Appello – hanno affermato, preliminarmente, che i buoni pasto non rappresentano un elemento dell’ordinaria retribuzione del lavoratore e che, dunque, non sono da considerarsi come un’erogazione di natura retributiva.

I buoni pasto, a dire della Suprema Corte, sono da qualificarsi alla stregua di un’agevolazione preminentemente assistenziale e collegata al rapporto di lavoro da un nesso di natura meramente occasionale.

Ai fini della natura retributiva dei buoni pasto non rileva neppure la reiterata erogazione degli stessi nel tempo da parte del datore di lavoro, ancorché la stessa abbia ormai costituito una prassi aziendale consolidata. Pertanto, dal momento che i buoni pasto non rientrano nel trattamento retributivo in senso stretto, il datore di lavoro può decidere unilateralmente in merito alla loro erogazione, trattandosi la loro erogazione di una disposizione aziendale di carattere discrezionale, che nulla ha a che vedere con disposizioni contrattuali o sindacali.

Date le considerazioni sopra descritte, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del lavoratore e confermato la legittimità dell’operato del datore di lavoro.

Fonte: Sintesi – Ordine dei Consulenti del Lavoro

CCNL Grafici Editoriali (Piccola Industria – UNIGEC-CONFAPI, UNIMATICA-CONFAPI): flexible benefits

Il CCNL Grafici Editoriali (il “CCNL”) prevede che, a decorrere dal mese di febbraio di ogni anno, le aziende mettano a disposizione di tutti i lavoratori dei flexible benefits per un importo di Euro 258,00 da utilizzare entro il 31 dicembre dell’anno stesso. Qualora, per il corrente anno, non sia ancora stata data attuazione a tale previsione, il CCNL dispone che tali emolumenti possano essere conferiti ai lavoratori a partire dal mese di ottobre 2020, con utilizzo comunque vincolato entro il dicembre di quest’anno.

Si ricorda che hanno diritto a quanto sopra i lavoratori, superato il periodo di prova, in forza al 1° gennaio di ciascun anno o successivamente assunti entro il 31 dicembre di ciascun anno:

  • con contratto a tempo indeterminato;
  • con contratto a tempo determinato che abbiano maturato almeno sei mesi, anche non consecutivi, di anzianità di servizio nel corso di ciascun anno (1° gennaio/31 dicembre). Sono esclusi i lavoratori in aspettativa non retribuita né indennizzata nel periodo 1° gennaio/31 dicembre.

CCNL – Agenzie di viaggio e turismo (Confcommercio): premio di risultato

Il CCNL del 24 luglio 2019 prevedeva che, in mancanza di un accordo sul premio di risultato stipulato entro il 30 aprile 2020, il datore di lavoro fosse tenuto ad erogare, con la retribuzione del mese di maggio 2020, degli importi premianti parametrati per ciascun livello di inquadramento.

 

Con il successivo accordo del 28 maggio 2020, tali termini sono stati posticipati al 30 novembre 2020 e al 31 dicembre 2020, fatti salvi gli accordi di miglior favore sottoscritti in materia.

 

In dettaglio, gli importi sono quantificati come segue:

 

Livello

Euro

A, B

186,00

1, 2, 3

158,00

4, 5

140,00

6S, 6, 7

112,00

 

CCNL Telecomunicazioni (Call-center “outbound” – Assotelecomunicazioni): incremento compenso orario minimo garantito

È stato differito al 1° novembre 2020 l’incremento del compenso orario minimo garantito per i collaboratori che svolgono attività di vendita di beni e servizi e di recupero crediti realizzati attraverso call-center “outbound”, inizialmente programmato per il 1° aprile 2020 e successivamente rinviato al 31 luglio 2020.

Nell specifico ai collaboratore in questione, vengono riconosciuti i compensi conseguenti al raggiungimento degli obiettivi prefissati dal committente qualora risultino superiori ai compensi che spettano allo stesso in relazione al numero totale di ore effettivamente lavorate.

L’incremento in favore dei collaboratori è disposto con l’applicazione del 100% del minimo tabellare del 2° livello di inquadramento del CCNL, rapportato alle ore di effettiva prestazione nel periodo di vigenza del contratto di collaborazione.

Licenziamento per raggiungimento limiti di età: obbligo al preavviso contrattuale

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18955 pubblicata il giorno 11 settembre 2020, ha affermato che nel caso di licenziamento per raggiungimento dei limiti di età è comunque dovuto al lavoratore il preavviso o la relativa indennità sostitutiva.

I fatti

I fatti di causa riguardano un lavoratore, inquadrato come dirigente, a cui era applicato il contratto collettivo nazionale di lavoro per i dirigenti del settore industriale (il “CCNL”). Il dirigente – avente diritto alla pensione di vecchiaia dal 4 febbraio 2009, data del compimento del 65° anno di età – aveva ricevuto una prima comunicazione di risoluzione del rapporto di lavoro il 26 marzo 2008 con effetto dal successivo 30 giugno.

In data 14 gennaio 2009 l’azienda comunicava al dirigente la risoluzione del rapporto al 4 febbraio 2009, operando quindi una rettifica della comunicazione inviata il 26 marzo 2008.

Il dirigente adiva così l’autorità giudiziaria e risultando soccombente ricorreva in appello.

La Corte d’appello adita riteneva sussistente l’obbligo datoriale al preavviso, osservando come l’art. 2118 cod. civ. non ponesse limitazioni di sorta e neppure l’art. 22 del CCNL escludesse un tale obbligo in caso di risoluzione del rapporto di lavoro per raggiunti limiti di età.

In merito al quantum, la Corte d’appello osservava come il preavviso effettivamente fruito dal lavoratore fosse stato pari a soli 18 giorni, intercorrenti dal 14 gennaio 2009 al 4 febbraio 2009, neanche lontanamente congruo a quanto stabilito dalla contrattazione collettiva, con ogni conseguenza in termini di riconoscimento della relativa indennità per il periodo non accordato. Per questo motivo, la Corte di Appello condannava il datore di lavoro al pagamento in favore del dirigente dell’indennità sostitutiva del preavviso riferita alla differenza tra i 12 mesi dovuti a norma di CCNL e i 18 giorni di preavviso effettivamente allo stesso garantiti.

Avverso la decisione dei giudici di merito la società datrice di lavoro proponeva ricorso per cassazione, cui il dirigente resisteva con controricorso.

La decisione della Corte di Cassazione

A detta della Suprema Corte la sentenza impugnata ha precisato come proprio la società datrice di lavoro avesse, con il suo comportamento, confermato che il raggiungimento dei limiti di età – nonostante abilitasse la stessa a procedere con il licenziamento ad nutum – non esonerava comunque dal garantire il preavviso al lavoratore, in coerenza anche con una corretta lettura dell’art. 22 del CCNL.

La medesima Corte ha enunciato di aver più volte statuito che “la tipicità e tassatività delle cause d’estinzione del rapporto di lavoro escludono risoluzioni automatiche al compimento di determinate età ovvero con il raggiungimento di requisiti pensionistici”, diversamente da quanto accade, ad esempio, nel lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni in tema di collocamento a riposo d’ufficio.

Pertanto, in assenza di un valido atto risolutivo del datore di lavoro, secondo la Corte, il rapporto “prosegue con diritto del lavoratore a percepire le retribuzioni anche successivamente al compimento del sessantacinquesimo anno di età. A ciò consegue che, nel campo dei rapporti di lavoro di natura privatistica, per la risoluzione del rapporto per limiti di età anagrafica del lavoratore, al datore di lavoro è imposto comunque l’obbligo di preavviso.

Alla società datrice di lavoro, contrariamente a quanto determinato in appello, è stata riconosciuta solo l’effettiva decorrenza del preavviso dalla prima comunicazione inviata al lavoratore – datata 26 marzo 2008 – in luogo della seconda inviata il 14 gennaio 2009. A detta dei giudici della Cassazione, infatti, non può ritenersi che la seconda comunicazione abbia avuto effetti estintivi della prima, in quanto “finalizzata solo alla anticipazione del termine, originariamente fissato, di cessazione del rapporto, ferma restando la manifestata volontà risolutiva”.

Tuttavia, il termine applicabile nella fattispecie (12 mesi dal 26 marzo 2008) non è risultato interamente rispettato, con la conseguenza che la Corte di Cassazione ha riconosciuto al lavoratore il diritto all’indennità sostitutiva del preavviso in misura corrispondente al periodo non goduto, pari ad un mese e ventidue giorni (dal 4 febbraio 2009 al 26 marzo 2009). Tale soluzione è stata considerata coerente con quanto previsto dall’art. 1231 cod. civ., che esclude la novazione (e quindi in generale un fenomeno estintivo) in presenza di modifiche che riguardano l’apposizione e/o l’eliminazione di un termine.

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La sentenza in commento giunge, dunque, alla conclusione secondo la quale nel campo dei rapporti di lavoro di natura privatistica, per la risoluzione del rapporto per limiti di età anagrafica del lavoratore, il datore di lavoro è legittimato a procedere con un recesso ad nutum pur nel rispetto dell’obbligo del preavviso contrattualmente dovuto.

Piani di Welfare aziendale a carattere premiale: la Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate

Con la Risoluzione n. 55/E/2020, del 25 settembre, l’Agenzia delle Entrate ha risposto positivamente ad un’istanza di interpello presentata da una Società intenzionata all’attivazione di un piano di Welfare attraverso due distinti regolamenti aziendali in forza dei quali, al raggiungimento di un obiettivo di fatturato minimo, sarebbe stato riconosciuto ai dipendenti un credito Welfare da utilizzare attraverso una specifica piattaforma web.

La Società, con il suo l’interpello, domandava:

  • se, in caso di adozione di un piano di Welfare a carattere premiale ed incentivante, i crediti welfare potevano non concorrere alla formazione del reddito da lavoro dipendente secondo le disposizioni dell’art. 51 comma 2 e 3 del TUIR e
  • se i costi sostenuti dalla Società per l’attuazione del piano di Welfare potessero essere totalmente deducibili ai fini IRES secondo le disposizioni dell’art. 95 del TUIR.

Considerazioni dell’Agenzia delle Entrate

  1. Regime fiscale delle somme erogate a titolo di credito Welfare

In relazione all’applicabilità del regime di cui all’art. 51 commi 2 e 3 del TUIR l’Agenzia delle Entrate ha ribadito che le somme erogate a titolo di credito Welfare non concorrono alla formazione del reddito se i benefit sono messi a disposizione della generalità o di categorie di dipendenti.

Tale indicazione era già stata confermata con la circolare n. 28/E/2016, allorquando l’Agenzia delle Entrate aveva sottolineato la possibilità di avvalersi di piani di welfare legati alla premialità, ancorché offerti alla generalità o a categorie omogenee di dipendenti.

Si è ribadito, inoltre, che l’espressione “categorie di dipendenti” è da intendersi in senso ampio e non limitato alle categorie previste da codice civile. Sono considerate “categorie”, ad esempio, anche i dipendenti di un certo “livello”, “inquadramento” o con una certa “anzianità di servizio”.

Per quanto riguarda, invece, il carattere premiale e incentivante di un piano di Welfare la cui erogazione di beni e servizi è vincolata al raggiungimento di un obiettivo aziendale, secondo l’Agenzia delle Entrate l’applicabilità del regime di cui all’art. 51 commi 2 e 3 permane anche quando i beni e i servizi vengono corrisposti per gratificare i lavoratori.

L’Agenzia, infatti, nel caso in esame, ha ritenuto prevalente l’aspetto della c.d. “fidelizzazione” dei dipendenti che non viene meno quando la ripartizione dei benefitnon trovi (ndr trova) giustificazione nella valutazione dell’attività lavorativa del dipendente, sia singolarmente considerato che in gruppo, ovvero su valutazioni strettamente connesse alla prestazione lavorativa.

In considerazione di quanto espresso dall’Agenzia delle Entrate con la risoluzione in esame, risulta in linea con i commi 2 e 3 dell’articolo 51 del TUIR un piano welfare che premia i lavoratori in ipotesi di incremento del fatturato aziendale, con una graduazione dell’erogazione dei benefits in base alla retribuzione annua lorda di ogni singolo dipendente e purché i benefits non vengano erogati in sostituzione della retribuzione fissa o di quella variabile.

2. Deducibilità ai fini IRES dei costi per implementare il Piano Welfare

Per quanto riguarda, invece, la deducibilità ai fini IRES dei costi che la Società sostiene per l’implementazione del Piano di Welfare, l’Agenzia delle Entrate non ha evidenziato criticità nell’applicare l’art. 95 del TUIR se i crediti welfare riconosciuti ai lavoratori vengono erogati in ragione di un contratto, un accordo o un regolamento aziendale che possa configurare l’adempimento di un obbligo negoziale.

L’Agenzia delle Entrate, riprendendo la circolare n. 28/E del 15 giugno 2016, ha infatti chiarito che un regolamento, affinché configuri l’adempimento di un obbligo negoziale, non deve essere revocabile e non deve essere modificabile in autonomia dal datore di lavoro. In tale circostanza i costi per i benefits del piano di welfare sostenuti dal datore di lavoro sono totalmente deducibili ai fini IRES e non nel solo limite del cinque per mille previsto dall’art. 100 del TUIR.

Esonero contributivo in alternativa ai trattamenti di integrazione salariale: i primi chiarimenti dell’INPS

L’INPS, con la circolare 105/2020, ha fornito i primi chiarimenti per la gestione degli adempimenti connessi all’esonero dal versamento dei contributi previdenziali per i datori di lavoro che non richiedono ulteriori trattamenti di integrazione salariale connessi con l’emergenza epidemiologica da COVID-19.

Le previsioni del Decreto Agosto

L’articolo 3 del Decreto Legge 14 agosto 2020 n. 104 (c.d. “Decreto Agosto”), convertito, con modificazioni, dalla Legge 13 ottobre 2020, n. 126, riconosce un incentivo economico, sotto forma di esonero dal versamento dei contributi previdenziali, in favore dei datori di lavoro che (i) non richiedono gli ulteriori periodi di integrazione salariale previsti dal medesimo decreto e (ii) abbiano già fruito negli scorsi mesi di maggio e giugno dei trattamenti di integrazione salariale di cui al Decreto Legge 17 marzo 2020, n. 18 (cd. “Decreto Cura Italia”).

L’esonero contributivo è fruibile per un periodo di massimo 4 mesi, e comunque entro il 31 dicembre 2020, e nei limiti del doppio delle ore di integrazione salariale già fruite nei medesimi mesi di maggio e giugno 2020.

Inoltre, ai datori di lavoro che abbiano beneficiato di tale esonero si applicano i divieti in materia di licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo, di cui all’articolo 14 del Decreto Agosto. La violazione di tale disposizione comporta la revoca, con efficacia retroattiva, dall’esonero contributivo concesso e l’impossibilità di presentare domanda di integrazione salariale ai sensi dello stesso Decreto.

I chiarimenti dell’INPS

L’INPS, con la circolare in esame, ha chiarito che possono beneficiare dello sgravio contributivo i datori di lavoro privati, anche non imprenditori, ad esclusione del settore agricolo, che:

  • abbiano fruito, nel periodo di maggio-giugno 2020, dei trattamenti ordinari di integrazione salariale, degli assegni ordinari e dei trattamenti di integrazione salariale in deroga, previsti dal Decreto Cura Italia in relazione all’emergenza epidemiologica da COVID-19;
  • non abbiano richiesto o non richiederanno i nuovi interventi di integrazione salariale previsti dall’articolo 1 del Decreto Agosto.

In aggiunta a quanto precede, l’INPS precisa che possono comunque beneficiare dell’esonero de quo i datori di lavoro che hanno fatto richiesta di ammortizzatori sociali sulla base del Decreto Cura Italia prima del 15 agosto (data di entrata in vigore del Decreto Agosto), ovvero, in alternativa, anche dopo il 14 agosto. Ciò a condizione che i periodi di integrazione decorrano in data anteriore al 13 luglio, non rilevando in questo caso il fatto che i trattamenti di integrazione salariale possano avere uno sviluppo, seppur parziale, dopo il 12 luglio.

Al riguardo, è stato altresì evidenziato che i trattamenti di integrazione salariale sono richiesti in relazione alle singole unità produttive facenti capo al medesimo datore di lavoro (matricola INPS), e pertanto lo stesso potrà operare la scelta tra ricorso all’ammortizzatore sociale e esonero contributivo per singola unità produttiva. 

La misura dell’incentivo è pari alla contribuzione a carico del datore di lavoro – con esclusione dei premi e contributi dovuti all’INAIL e altre contribuzioni minori (quali, ad esempio, il contributo dello 0,30% destinato al finanziamento dei fondi interprofessionali; il contributo, ove dovuto, al “Fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto di cui all’articolo 2120 del codice civile”) – non versata in relazione al doppio delle ore di fruizione degli ammortizzatori sociali nei mesi di maggio e giugno 2020 e prescinde dal numero dei lavoratori per i quali si è fruito dei trattamenti di integrazione salariale.

L’importo complessivo dell’incentivo così ottenuto deve essere riparametrato e applicato su base mensile (nel limite massimo della contribuzione astrattamente dovuta nel mese dal datore di lavoro beneficiario) per un periodo di massimo 4 mesi e, comunque, entro il termine ultimo di fruizione del 31 dicembre 2020.

Infine, l’Istituto ha precisato che l’esonero contributivo di cui si tratta è subordinato, oltre al rispetto (i) delle condizioni previste per l’accesso a tutti i benefici di natura contributiva nonché (ii) del divieto di licenziamento previsto dall’articolo 14 del Decreto Agosto, al benestare della Commissione europea.

Infatti, essendo rivolto ad una specifica platea di destinatari si configura nell’alveo degli “aiuti di Stato” per i quali è necessaria la preventiva autorizzazione della Commissione europea, come anche sottolineato dalla nota dell’INL del 16 settembre 2020, n. 713.

Per l’effettiva applicazione del beneficio si resta dunque in attesa della necessaria autorizzazione della Commissione Europea oltre che delle successive istruzioni operative da parte dell’INPS.

CIGO, FIS e CIGD: la prassi operativa dell’INPS

L’art. 1 del Decreto Legge 14 agosto 2020 n. 104 (c.d. “Decreto Agosto”), convertito, con modificazioni, dalla legge 13 ottobre 2020, n. 126, ha rideterminato il periodo dei trattamenti di integrazione salariale (ordinaria o in deroga) e dell’assegno ordinario che possono essere richiesti nel secondo semestre 2020 per far fronte all’emergenza sanitaria in atto.

In particolare, è stata prevista la possibilità per il datore di lavoro di accedere a un periodo massimo complessivo di 18 settimane (9 più ulteriori 9) fruibili dal 13 luglio 2020 al 31 dicembre 2020.

Le istruzioni dell’INPS

A dettare le istruzioni operative per la fruizione dei trattamenti di integrazione salariale in materia di Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria (CIGO), Fondo di Integrazione Salariale (FIS) e Cassa Integrazione Guadagni in Deroga (CIGD) con causale COVID-19, è la circolare INPS n. 115 del 30 settembre.

Con essa l’Istituto ha innanzitutto fissato al 31 ottobre 2020 il termine entro il quale inoltrare le domande di integrazione salariale riferite ai periodi di luglio e agosto. A tal proposito, si evidenzia che la scadenza originaria, così come da previsione normativa, era fissata al 30 settembre 2020.

Il Decreto Agosto ha confermato la propedeuticità e l’obbligo della consultazione sindacale nonché il relativo esame congiunto con le organizzazioni sindacali più rappresentative per poi procedere alla richiesta di integrazione all’Istituto: restano esonerati da tale obbligo i datori di lavoro che non occupino più di 5 dipendenti.

La prassi operativa prevede l’invio all’Inps di due distinte domande.

Ai datori di lavoro sono riconosciute 18 settimane, suddivise in due distinti periodi da 9 settimane, da fruirsi nel periodo ricompreso tra il 13 luglio e il 31 dicembre 2020.

Per le prime 9 settimane di intervento, la richiesta di integrazione salariale potrà essere trasmessa sulla piattaforma INPS utilizzando la causale “COVID- Nazionale” con le medesime modalità utilizzate per le richieste di integrazione salariale previste dal “Decreto Cura Italia” e dal “Decreto Rilancio”.

Per le ulteriori 9 settimane di integrazione salariale, il Decreto Agosto ha introdotto un contributo addizionale a carico del datore di lavoro rendendo quindi “oneroso”, a particolari condizioni di fatturato come di seguito descritti, il ricorso agli ammortizzatori sociali con causale COVID-19.

Oltre alla circolare esplicativa relativa alle previsioni del Decreto Agosto, con il messaggio n. 3525 dello scorso 1° ottobre, l’INPS ha rilasciato le procedure di presentazione delle domande con la nuova causale “COVID 19 con fatturato” relativa alle ulteriori 9 settimane che non possono riguardare periodi anteriori al 14 settembre 2020 e da concludersi, comunque, entro il 31 dicembre 2020.

La richiesta delle ulteriori 9 settimane, a partire dal 14 settembre 2020, necessita dell’invio da parte del datore di lavoro dell’autocertificazione attestante il calo del fatturato registrato nel primo semestre del 2020 rispetto al primo semestre dell’anno precedente.

Più specificamente, il datore di lavoro deve autocertificare la sussistenza di una delle seguenti condizioni: non avere subito un calo di fatturato, aver avuto un calo di fatturato inferiore al 20%, aver subito un calo di fatturato pari o superiore al 20% o, infine, avere avviato l’attività di impresa in data successiva al 1° gennaio 2019.

L’accesso al secondo periodo di 9 settimane di integrazione salariale senza oneri a carico del datore di lavoro richiedente sarà, infatti, possibile solo per i datori di lavoro che (i) abbiano subito una riduzione del fatturato nel primo semestre del 2020 pari ad almeno al 20% rispetto al primo semestre dell’anno 2019 ovvero (ii) abbiano avviato l’attività di impresa in data successiva al 1° gennaio 2019.

Nelle casistiche per le quali si dovesse registrare una riduzione di fatturato in misura inferiore al 20% il datore di lavoro sarà soggetto al pagamento, appunto, del contributo addizionale nella misura del 9% della retribuzione che sarebbe spettata al lavoratore per le ore non prestate durante la sospensione o riduzione dell’attività.

Qualora invece non si dovesse registrare alcuna riduzione del fatturato, il contributo addizionale dovuto sarà pari al 18%.

Al fine di consentire l’individuazione dell’aliquota del contributo addizionale di cui all’art. 1 del Decreto Agosto, i datori di lavoro richiedenti devono corredare la domanda INPS di integrazione salariale con una dichiarazione di responsabilità, resa ai sensi dell’art. 47 del D.P.R. n. 445/2020. Con essa i datori di lavoro devono autocertificare alternativamente la sussistenza e l’indice dell’eventuale riduzione del fatturato nonché il diritto all’esonero dal versamento del contributo addizionale qualora l’attività di impresa sia stata avviata in data successiva al 1° gennaio 2019.

Così come espressamente riportato nel messaggio n. 3131 del 21 agosto 2020, qualora la domanda non fosse corredata dall’apposita autocertificazione, il contributo addizionale sarà richiesto nella misura massima del 18% della retribuzione globale che sarebbe spettata al lavoratore per le ore di lavoro non prestate durante la sospensione o riduzione dell’attività lavorativa.

Il datore di lavoro, nel caso in cui fosse impossibilitato all’anticipo dei trattamenti di integrazione salariale e optasse per il pagamento diretto della prestazione da parte dell’INPS, sarà tenuto ad inviare all’Istituto tutti i dati necessari per il pagamento o per il saldo dell’integrazione salariale entro la fine del mese successivo a quello in cui è collocato il periodo di integrazione salariale (c.d. modello SR41).

Infine, in tema di cassa integrazione in deroga, con l’obiettivo di semplificare il farraginoso iter burocratico che prevedeva in primis l’invio della domanda di integrazione salariale alla Regione territorialmente competente e successivamente all’Inps, il Decreto Agosto ha disposto che la trasmissione delle domande venga espletato con le medesime modalità utilizzate per i trattamenti di CIGO e FIS, ovverosia utilizzando direttamente la piattaforma INPS.

La proroga dello stato di emergenza estende lo smart working semplificato

Il Decreto Legge n. 125 del 7 ottobre scorso ha esteso al 31 gennaio 2021 il corrente stato di emergenza dovuto al diffondersi della pandemia da COVID-19. Il precedente termine era fissato al 15 ottobre 2020.

Il cosiddetto smart working semplificato non segue però la proroga dello stato di emergenza. Infatti, secondo quanto disposto in precedenza dal decreto Rilancio, lo smart working semplificato è al momento esteso fino al 31 dicembre 2020.

Fino a tale data i datori di lavoro potranno quindi accordare ai lavoratori prestazioni di lavoro agile senza l’obbligo di stipulare il relativo accordo individuale con ciascuno di essi. Resta comunque dovuta nei consueti termini la comunicazione telematica al Ministero del Lavoro, mediante il portale “Cliclavoro”. Ovviamente, nel frattempo potrebbero essere emessi ulteriori provvedimenti a regolare il lavoro agile e le relative scadenze.

 

Le istruzioni operative dell’INPS per i lavoratori con figli in quarantena

Con la circolare n. 116 del 2 ottobre u.s., l’INPS ha fornito le istruzioni operative in merito alle modalità di fruizione del congedo Covid-19 da parte dei lavoratori dipendenti in caso di quarantena dei figli impegnati a scuola.

Come noto, l’articolo 5 del D.L. 111/2020 ha introdotto, a favore dei genitori lavoratori dipendenti, un congedo indennizzato (c.d. congedo COVID-19 per quarantena scolastica dei figli) da utilizzare per astenersi dal lavoro, in tutto o in parte, in corrispondenza del periodo di quarantena del figlio convivente e minore di anni quattordici, disposta dal Dipartimento di prevenzione della ASL territorialmente competente a seguito di contatto verificatosi all’interno del plesso scolastico.

Il congedo può essere fruito alternativamente da entrambi i genitori se non possono svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile.

L’Istituto nella sua circolare ha riportato i casi di compatibilità e incompatibilità tra il congedo Covid -19 in esame e altre tipologie di assenza.

A titolo esemplificativo, resta incompatibile la fruizione del predetto congedo con tipologie di assenza, quali la malattia, la maternità/paternità, le ferie, l’aspettativa non retribuita ed i permessi e congedi ai sensi della legge 104/1992.

Inoltre, l’Istituto ha riportato i casi di incompatibilità tra il congedo de quo e altre tipologie di assenza relative all’altro genitore convivente con il figlio. Tra essi si annoverano il congedo parentale, i riposi giornalieri della madre o del padre e gli strumenti a sostegno del reddito per sospensione dell’attività lavorativa.

Nella circolare è stato, altresì, precisato che la domanda deve essere presentata esclusivamente in via telematica, (i) attraverso il portale web www.inps.it, se si è in possesso del PIN rilasciato dall’istituto oppure (ii) tramite il Contact Center Integrato dell’istituto o i servizi offerti dai Patronati.

La domanda può avere ad oggetto periodi di fruizione del congedo antecedenti la data di presentazione della domanda stessa, purché ricadenti nel periodo tra il 9 settembre ed il 31 dicembre 2020.

Nella domanda devono essere indicati gli elementi identificativi del provvedimento di quarantena disposto dal Dipartimento di prevenzione della ASL territorialmente competente.

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